Alexis Bétemps https://betemps.eu/it/home/ A bon entendeur, salut! Thu, 11 Jul 2019 20:29:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.2.2 Il nazionalismo italiano e l’invenzione del Cervino https://betemps.eu/it/il-nazionalismo-italiano-e-linvenzione-del-cervino/ Sun, 08 Feb 2015 16:58:53 +0000 https://betemps.eu/?p=371 Alexis Bétemps Le Mont-Cervin, cette montagne si fière et si belle que nous pouvions voir tous les jours, le Mont-Cervin, devant lequel les étrangers s’arrêtent frappés d’admiration, le Mont-Cervin ne nous frappait pas. Amé Gorret La percezione della montagna Rude e inospitale, l’alta montagna non ha mai interessato veramente i montanari: contadini e allevatori si […]

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Alexis Bétemps

Le Mont-Cervin, cette montagne si fière et si belle
que nous pouvions voir tous les jours, le Mont-Cervin,
devant lequel les étrangers s’arrêtent frappés d’admiration,
le Mont-Cervin ne nous frappait pas
.

Amé Gorret

La percezione della montagna

[cml_media_alt id='375']Le Cervin[/cml_media_alt]Rude e inospitale, l’alta montagna non ha mai interessato veramente i montanari: contadini e allevatori si spingevano solo fin dove arrivava il bestiame. Soltanto i contrabbandieri, i cercatori di cristalli, i cacciatori di camosci e di marmotte osavano sfidare le rocce e i ghiacciai perenni. Ed è proprio tra questi che furono reclutate le prime guide: Jean-Antoine Carrel e Amé Gorret per il Cervino, Pierre Gaspard per la Meije, e tante altre ancora meno note.

Nel XVIII secolo, la cosiddetta scoperta dell’alta montagna interessa dapprima solo il mondo scientifico: botanici, glaciologi, fisici, naturalisti, biologi, geologi, i quali, armati di apparecchi e guidati dai montanari, si avventurano laddove s’interrompono i sentieri, per riempire i loro taccuini d’osservazioni preziose, raccogliere campioni, dar luogo a collezioni. Dopo un primo impatto non sempre favorevole, i loro occhi cittadini li portano ad apprezzare questi paesaggi aspri e selvaggi, poco valorizzati dall’abitante più sensibile al verde dei pascoli ed al giallo dei campi di grano. Ben inteso, non vi era nulla da scoprire, i montanari l’avevano già fatto …

Ancora oggi, capita che si parli della scoperta dell’alta montagna come per la scoperta dell’America; è una visione etnocentrica, riflesso del cosiddetto divario culturale: Europei/Aborigeni d’America e Cittadini/Montanari.

Si forma così, si perfeziona e si afferma una nuova visione estetica: l’insignificante diventa bello, pittoresco, grandioso. Questi nuovi canoni di bellezza si diffonderanno e, progressivamente, convertiranno la stessa sensibilità dei montanari. E non era molto tempo fa…

Il lavoro di ricerca in quota, da faticoso e pericoloso, diventa piacevole ed arricchente. Nuovi adepti, sempre più interessati all’estetica piuttosto che alla scienza, rendono popolari le escursioni nelle Alpi. Pittori ed incisori si alternano agli esperti scientifici e danno il via alla banalizzazione della montagna. Gli Inglesi, nobili e abbienti borghesi, diventano i maggiori frequentatori della montagna: uomini di scienza, artisti e, cosa assolutamente nuova, sportivi. E spesso le tre cose insieme!

I conquistatori dell’inutile

L’abbé Gorret incontra molto giovane i primi Inglesi. Con l’humour che lo ha sempre caratterizzato, racconterà più tardi di avere conosciuto molti Inglesi senza qualificativi, ma anche Inglesi tedeschi, Inglesi svizzeri, Inglesi francesi ed anche Inglesi italiani: veri sportivi.

Gli sportivi, i conquistatori dell’inutile, danno il via alla corsa sfrenata verso le cime inviolate. Nella maggior parte dei casi, a guidare questi alpinisti è il gusto dell’avventura, la competizione con l’altro, l’affermazione della personalità. Ad accomunarli, non sono più le accademie delle scienze; ormai si organizzano e si riuniscono nei club: il primo è l‘Alpine Club inglese (1857), seguito dall’Osterreichischer Alpenverrein (1862), dal Club Alpino Italiano (1863), dal Deutscher Alpenverrein (1869) e dal Club Alpin Français (1874). I montanari capiscono con difficoltà questo nuovo modus vivendi, talmente è estraneo alla loro mentalità. Vi si adattano lentamente e cercano di trarne il maggior numero di vantaggi. Tuttavia, con l’andar del tempo, ne sono irritati, feriti fino all’umiliazione dal trionfalismo degli stranieri, dalla loro arroganza, dalle loro arie di conquista. Le iperbole, i racconti ispirati, le visioni romantiche della natura, i buoni sentimenti da quattro soldi impregnano i testi dei letterati che cantano questa nuova visione della montagna. Si direbbe che si sia perduto il significato dei limiti .

Jean Vernet, scrittore di montagna, lapidario, dichiara: ” L’alpinisme n’est pas un sport. C’est une religion…” e sarà solo uno dei primi ad affermare una tale eresia. Questa enfasi sorprende e non è capita dalla mentalità contadina, poco incline all’esagerazione.

Il nazionalismo nelle Alpi

Il terreno è ormai pronto ad accogliere una nuova visione della montagna che aprirà la strada, in modo più o meno consapevole, ai nazionalismi dominanti fino alla metà del XX secolo.

Già oggetto di ricerca scientifica, poi di piacere estetico, area sportiva, occasione per mettere alla prova le qualità individuali, la montagna diventa terreno di confronto delle rivendicazioni identitarie: il 1848 infiamma l’Europa ridisegnando i confini e il 1861 vede finalmente l’Italia indipendente. In questo mutato contesto, le Alpi assumono una nuova importanza e la teoria predominante dei confini naturali certamente attribuisce loro un ruolo non solo strategico, ma anche simbolico. In una sorta di attualizzazione del mito del popolo eletto, l’arco alpino è presentato come uno scudo di protezione che il Buon Dio ha voluto donare al Paese a lui tanto caro: l’Italia. Le Alpi acquisiscono, così, sacralità, baluardo naturale contro i nemici reali o fittizi. La loro carica simbolica cresce fino a diventare, nel caso dei territori cosiddetti irredenti, una rivendicazione di proprietà. In poche parole, per la stupidità degli uomini, le montagne, in passato cerniera tra i popoli, diventano una barriera di ferro spinato.

Essere il primo a scalare una cima non è più ritenuto un successo personale o di un gruppo ristretto, ma la vittoria di una nazione, l’affermazione della genialità di un popolo, un segno del Signore.

In vent’anni, gli Inglesi possono vantare un record di successi impressionanti. La quantità di punte e massicci violati tra il 1840 ed il 1860 è enorme. E non si arresta …

Nel 1861, l’inglese Mathews, accompagnato dalla guida Croz di Chamonix, scala per primo il Monviso, la montagna dei Piemontesi, che con il bel tempo, si può ammirare da Torino. Nel 1863, Whymper, sempre con Croz, raggiunge la Barre des Écrins, nel Delfinato. Nel mese di giugno del 1865, ancora Whymper, con le guide di Chamonix e Zermatt, apre la via delle Grandes-Jorasses partendo da Courmayeur. E’ un duro colpo da incassare per il nazionalismo italiano, poiché si tratta di montagne di confine, e in quest’ultimo caso, di un confine recente. L’impresa è percepita come un ennesimo affronto all’Italia.

La nascita del CAI, il Club Alpino Italiano

Il Club Alpino Italiano viene istituito dopo la prima italiana al Monviso, nel 1863, due anni dopo la vittoria inglese. Ne sono promotori, alcuni brillanti giovani dell’aristocrazia e soprattutto della borghesia piemontese. Quelli che avevano fatto l’Italia”, si era soliti dire … Citiamo Quintino Sella, di una famiglia di banchieri ed industriali di Biella, uomo di scienza, ingegnere idraulico, Ministro delle finanze del Regno d’Italia; Felice Giordano, geologo e anche lui ingegnere; Bartolomeo Gastaldi, pioniere della glaciologia e secondo presidente del CAI; Ferdinando Perrone di San Martino, barone, primo presidente del CAI; Giovan Battista Rimini, segretario del CAI.

Dunque, un gruppo di giovani entusiasti, istruiti, appassionati di montagna e patrioti. Guido Rey definisce con precisione la loro missione “Gli è che a quel tempo gli Italiani avevano ben altro da pensare e da fare: fare l‘Italia e le azioni erano dirette a quello scopo, i pensieri tutti assorti in quell’ideale”. Concepivano l’alpinismo come un momento di formazione morale e patriottica e vedevano nelle montagne, non solo ciò che delimitava il confine, m anche un mezzo per valorizzare i risultati ed i protagonisti del giovane Regno d’Italia.

Si tratta di una visione assolutamente nuova della montagna: la gloria dell’individuo che conquista una cima coinvolge tutta la nazione di sua appartenenza. È una concezione che porterà lontano, molto lontano, troppo lontano. Esaltando il nazionalismo, nel XX secolo, l’alpinismo organizzato si scosterà dall’intento iniziale ed i Club Alpini, nel mondo germanico ed in Italia soprattutto, si piegheranno docilmente ai progetti dei regimi totalitari e razzisti. Il che non significa tuttavia che tutti i membri di questi Club fossero nazisti o fascisti. E soprattutto non nel periodo che ci interessa in questa sede! Ben inteso, le montagne non avevano nulla a che vedere con queste ideologie e i montanari ancora meno.

All’assalto della Gran Becca

Dopo 20 anni d’alpinismo sportivo, le cime da violare non erano più molto numerose e una dopo l’altra sembravano arrendersi agli Inglesi. Nel 1865, nelle Alpi, la sola vetta importante ancora da conquistare era il Cervino. Non bisognava lasciarsela sfuggire. Già da qualche anno, uno dei maggiori alpinisti della sua generazione, l’inglese Edward Whymper, si aggira intorno a questa montagna maestosa e simbolica. La conquista del Cervino diventa allora una priorità urgente del CAI, la nuova associazione italiana ed i suoi membri si organizzano per questo. I giovani alpinisti piemontesi, nuovi carbonari, con alla testa Quintino Sella, ordiranno, come la definirà Guido Rey nel suo stile patriottico e ampolloso, una congiura per conquistare il Cervino.

Contattato nel 1863 dal politico e scrittore di successo Giuseppe Torelli, Jean-Antoine Carrel si reca a Biella per incontrare Sella che intende conoscerlo. L’anno successivo, il futuro ministro incarica l’amico Felice Giordano, valente geologo e buon alpinista, dell’organizzazione della spedizione. Da quel momento in poi, quest’ultimo trascorre il suo tempo tra Zermatt, Il Breuil e Pâquier, per fare una ricognizione dei siti, conoscere le persone e informarsi su tutto ciò che potrà essere utile all’impresa. L’assalto alla Gran Becca è previsto per il 1865.

Quell’estate, tuttavia, Giordano non è il solo a nutrire progetti del genere. Dall’inizio dell’estate del 1965, Whymper si trasferisce a Valtournenche e prepara il suo piano d’attacco al Cervino. Contatta Carrel per un tentativo dal lato svizzero. Carrel, uomo di parola, che si era già impegnato con Giordano dall’11 luglio, accetta, ma solo fino a quella data, non oltre l’11 luglio! “Per fortuna il tempo divenne cattivo, Whymper non poté fare il suo nuovo tentativo e Carrel si disimpegnò venendo con me… ” scriverà Giordano. Se avesse fatto bello, Whymper e Carrel avrebbero potuto vincere insieme il Cervino? In questo caso, la storia sarebbe stata diversa … Ma non lo sapremo mai.

Per questa impresa, Giordano aveva ingaggiato le migliori guide di Valtournenche, che avrebbero preparato la strada a Quintino Sella ed a lui stesso. Non aveva badato a spese.

 La conquista del Cervino

Privo di qualunque supporto umano sul versante di Valtournenche, Whymper parte per Zermatt attraverso il Colle del Teodulo per realizzare a tutti i costi il suo progetto. Carrel, convinto che l’ascensione dalla parete del Vallese sia impossibile, si appresta, in tutta tranquillità, a “sferrare” l’attacco dal versante del Breuil. Con una cordata improvvisata, inopinatamente, Whymper raggiunge la vetta e Carrel, che aveva intrapreso la scalata con molta più calma, a qualche passo dalla fine, ha la sorpresa di vedersi precedere dalla squadra, ancora gioiosa di Whymper. Al Breuil, l’abbé Gorret e Giordano, che controllavano la vetta con il cannocchiale, intravedono persone sulla cima. Credendo che fosse Carrel, Giordano invia un telegramma entusiasta a Quintino Sella. Al suo ritorno, quando Carrel incontra Giordano, quest’ultimo, nonostante la delusione, lo incoraggia comunque e non desistere e a risolvere la questione del Cervino, una volta per tutte. Sarebbe stata, malgrado tutto, la prima ascensione dal versante valdostano, e poi, sulla vetta, occorre piantare la bandiera italiana!

Carrel non riesce più a convincere la squadra che l’aveva accompagnato. Per varie ragioni, tutti rinunciano. Giordano si propone e propone anche il suo amico Quintino Sella, ma Carrel è formale: “Pas de touristes !” mettendolo addirittura per iscritto, un dettaglio che deve avere profondamente ferito un uomo dalle qualità di Giordano.

La nuova cordata è quindi composta dall’abbé Gorret e da due giovani Valtornein, domestici dell’Hôtel Giomein: Jean-Augustin Meynet e Jean-Baptiste Bich. La cima sarà conquistata senza troppi problemi. Da sotto, con rammarico e po’ di amarezza, Giordano li segue con il cannocchiale, ma non avrà l’animo di festeggiare il loro ritorno vittorioso. Raggiunge Torino, dove scrive a Quintino Sella: “Volevo dirti che, se il vuoi, puoi ancora ascendere il Cervino con bastante onore, essendo il primo Monsieur che lo salirebbe dal lato d’Italia“. Il cuore dei congiurati è pieno d’amarezza ma, malgrado tutto, la bandiera italiana sventola comunque sulla cima della Gran Becca. Tutto il resto sono solo dettagli…

A questo punto, è interessante vedere un po’ più da vicino il comportamento dei protagonisti valdostani e, in modo particolare, quello di Georges Carrel (1800-1870), Jean-Antoine Carrel (1829-1890) e Amé Gorret (1836-1907), tre Valtornein, parenti, e tutti e tre molto particolari: un erudito, un cacciatore e un sacerdote: la mente, il braccio e la penna. È evidente che Georges Carrel non fosse solo un erudito: era anche sacerdote, o meglio canonico e scrittore. Jean-Antoine Carrel, come tutti i Valdostani dell’epoca era anche contadino e Amé Gorret oltre che prete era anche un ottimo cacciatore. In più, tutti e tre avevano an bouna tsamba, un passo eccellente per la montagna, erano quindi ottimi camminatori e scalatori.

 

Georges Carrel : l’erudito

Canonico influente, insegnante, illustre uomo di scienza, fondatore della Société de la Flore (1858) e del Club Alpin Valdôtain (1868), vero riferimento per qualunque viaggiatore famoso che volesse attraversare la Valle, soprannominato l’ami des Anglais, profeta della conquista del Cervino, Georges Carrel è colui che elabora la strategia per fare conoscere ed apprezzare la Valle d’Aosta e, soprattutto, affinché la conquista del Cervino sia opera dei Valdostani. Guido Rey gli riconosce questo ruolo senza esitazione: “Egli fu la scintilla che desta grande incendio; fu l’autore dell’idea, altri ne furono attori“. E aggiunge: “Amava ardentemente il suo campanile e quell’altro campanile altissimo di roccia che sovrasta tutta la valle. Figlio di antiche generazioni vissute a piè del monte, sentiva l’orgoglio della sua razza e ne conosceva tutta la forza e gli ardimenti“. Ormai troppo anziano per intervenire sul campo, si tiene al corrente di tutto ciò che accade ai piedi della Becca. Sa tutto del primo tentativo di Jean-Antoine Carrel e di Amé Gorret che definisce, in quell’occasione, deboli e velleitari. È al corrente dei progressi delle cordate inglesi che si alternano al Cervino; partecipa alla preparazione delle cordate valdostane.

Gli dobbiamo la prima relazione sulla scalata, redatta secondo la testimonianza di Carrel, Bich e Meynet. Lo stile è sobrio, quasi notarile, ma l’inizio è maestoso: “Jean-Antoine Carrel, dit le Bersaglier, guide-chef, Jean-Baptiste Bich, dit Bardolet, Aimé Gorret et Jean-Augustin Meynet, tous de Valtournenche, partent du Breuil vers 7 heures du matin le 16 juillet 1865 et se dirigent vers le Mont-Cervin dans l’intention d’en faire l’ascension quand même“. Vengono presentati i protagonisti e precisati gli obiettivi. Nel testo della relazione, non viene fatta menzione del ruolo del CAI, se non in modo indiretto per via dell’utilizzo di “un câble double, de la longueur de 16 mètres, fourni par M. l’ingénieur Giordano“, della posa della bandiera italiana sulla cima: “Le drapeau était large d’un mètre et long de deux mètres. Le bâton, long de deux mètres et demi a été fixé dans un tas de pierres” e di Giordano che accoglie gli alpinisti al ritorno.

Per una narrazione più esaustiva, il canonico rinvia all’abbé Gorret: “…qui a pris une part si active à cette glorieuse ascension, il vous aura dit ou vous dira les autres circonstances que j’ignore“.

Jean-Antoine Carrel, il cacciatore

Contadino, artigiano del legno, cacciatore di camosci, ex combattente, Jean-Antoine Carrel deve mantenere una famiglia numerosa: ben 12 figli! Così il nuovo mestiere che gli si profila all’orizzonte, quello di guida alpina, è senz’altro utile per integrare il bilancio famigliare. Inoltre, le grandi escursioni sulle montagne gli rinnovano continuamente, anche se con meno intensità, il piacere della caccia in quota, la sua grande passione. Fino alla conquista del Cervino, la caccia occupa ancora uno spazio privilegiato nel suo cuore. Nel 1862, sale con Whymper fino alla Grande-Tour, ma il cattivo tempo li respinge. Il giorno successivo fa bel tempo, Whymper passa a prendere Jean-Antoine per un nuovo tentativo ma quest’ultimo era andato con un amico a caccia di marmotte “…étant donné que la journée paraissait favorable… “. Il che ci fa intuire quali fossero le priorità di Jean-Antoine Carrel!

A mano a mano che frequenta il Cervino, Jean-Antoine impara ad amarlo. Whymper l’amava come una bella donna, Carrel come i Valdostani amano lo bien, come la terra degli avi, ricca e fertile. È così che Carrel ama il Cervino. Guido Rey riporta che Il Cervino è diventato per Carrel “…la ragione, lo scopo della sua vita, e voleva scalarlo dal versante della sua valle natia, per l’onore dei Valtornein.” Professionale e coscienzioso, per ogni uscita, Carrel si fa pagare poco o tanto e da chiunque: lo si paga per andare a Biella a trovare Quintino Sella, lo si paga per il tentativo sfortunato dell’11 luglio 1865. Ma quando, battuto da Whymper, accetta l’invito di Giordano per un secondo tentativo, quando tutti rinunciano, accetta anche di partire gratuitamente. “Di certo, quella di Carrel non fu una reazione nazionalista, quanto piuttosto un moto d’orgoglio, come ci si doveva attendere da parte di una delle migliori guide dell’epoca… “, scrive Michel Mestre.

Arrivato in cima al Cervino, pianta la bandiera italiana che gli è stata affidata, si ferma giusto il tempo necessario e riscende a festeggiare con i suoi compatrioti i quali, per l’occasione, come si faceva all’epoca nei giorni di festa, accendono fiaccole sui versanti intorno al Breuil. Jean-Antoine farà la guida per tutta la vita, salirà sulla cima del Cervino più di 50 volte, con semplici clienti o alpinisti illustri, tra i quali Whymper; farà l’ascensione di montagne lontane in altri continenti e morirà affaticato al rientro di una difficile ascensione al Cervino, dopo avere messo in sicurezza il suo cliente, il grande musicista torinese, di origine ebraica, Leone Sinigaglia.

L’abbé Amé Gorret

L’abbé Gorret, nato da una povera famiglia di agricoltori, ha avuto un’infanzia ordinaria, come tutti i figli di contadini del suo tempo: pastore a Cheneil, faceva piccoli lavoretti per aiutare la famiglia, frequentava la scuola per la quale manifesta particolari attitudini, il catechismo, e si misurava nelle corse nelle pietraie con i suoi compagni. Studia ad Aosta, sotto la guida dello zio canonico, Georges Carrel, ma ogni occasione è buona per tornare al villaggio natale, ai piedi del Cervino. Alto e grosso, lavoratore instancabile, dai modi un po’ rudi, sarà soprannominato, molto più tardi, l’Ours de la Montagne. Spontaneo e sincero nelle reazioni e nella parola, dotato di un forte senso dello humour, con una penna elegante e caustica, ci ha lasciato pagine indimenticabili su numerose escursioni alpine. Giovane e spensierato, è protagonista con Jean-Antoine Carrel del primo tentativo d’ascensione del Cervino ad opera di Valtornein nel 1857. Aderisce poi alla spedizione vittoriosa del 1865, quando tutte le guide con una certa esperienza hanno declinato l’invito di Giordano a ritentare la fortuna. A riferircelo è lo stesso Ours de la Montagne: “Eh bien ! Vous renoncez au Mont-Cervin, vous ne voulez plus repartir, j’y irai moi, qui veut me suivre?” Il Bersaglier raccoglie la sfida e, la sera, Jean-Baptiste Bich e Jean-Augustin Meynet completano la cordata. Ad un passo dalla cima, davanti ad un canalone invalicabile, si sacrificherà per il successo del progetto. Scriverà: “Conseil tenu, j’étais le plus pesant et le plus fort ; on m’aurait chargé d’or, je n’aurais pu me résigner ; il s’agissait d’un sacrifice, je le fis. Plantant mes talons sur l’abîme, le dos appuyé à la roche, les bras serrés sur la poitrine, je suspends deux de mes compagnons, l’un après l’autre, le troisième veut rester avec moi. J’étais heureux…

Di ritorno, è lui che riceverà dalle mani di Giordano la bandiera d’onore: la prenderà e cederà a Jean-Antoine. Questa volta, il 16 luglio 1865, Amé non raggiunge veramente la cima, ma sarà come se ci fosse veramente arrivato. I vincitori del Cervino dal versante valdostano per tutti sono quattro, anche se soltanto due hanno veramente messo piede sulla neve della vetta.

Amé Gorret, ancora giovanissimo, sarà vice-presidente onorario del CAI, percorrerà tutti i sentieri della sua valle, scalerà tutte le cime importanti della Valle d’Aosta e non solo. Con i suoi contatti ed i suoi scritti, proseguirà l’opera dello zio Georges Carrel per la promozione internazionale del turismo valdostano. Ma, soprattutto, sarà l’apostolo, purtroppo poco ascoltato, di un alpinismo alternativo, né d’élite, né sportivo, né nazionalista. L’Ours de la Montagne ci propone un alpinismo intelligente, culturale, aperto a tutte le categorie sociali, precursore per la sua modernità.

Per l’abbé Gorret, un’escursione o una scalata sono un modo per scoprire cose nuove. Il muretto che sostiene il sentiero, il campo di grano appena mietuto, l’uomo che irriga un prato, un ciuffo di fiori rari, una roccia colorata, una baita d’alpeggio in rovina: tutto merita di essere osservato studiato, spiegato. Tutto merita una visita, un po’ di tempo in più, uno sforzo per meglio comprendere. Ciò che conta, non è l’altezza della montagna scalata, né la sua fama, né il tempo impiegato per conquistarla, né tantomeno il fatto di essere stato il primo a raggiungerla. La montagna, per l’abbé, è prima di tutto un piacere complesso che occorre imparare ad assaporare ed un’occasione di arricchimento morale e culturale. La montagna non è un’entità spirituale astratta, buona o cattiva che sia, la montagna non è né la morale, né la cultura, ma, affrontata correttamente, aiuta l’individuo a coltivare meglio il suo spirito, a rafforzare la sua morale e a perfezionare la sua cultura.

Le due cime del Cervino

Le sommet du Mont-Cervin ne présente aucun plateau, c’est une arête de 150 mètres environ parallèle à l’équateur. Cette arête est bien étroite vers le milieu ; elle s’élargit vers les deux bouts” precisa Georges Carrel.  In cima al Cervino, vi sono dunque due piccole punte collegate da una cresta: una si affaccia verso la Valle d’Aosta, l’altra verso il Vallese.

Sulla prima, come abbiamo visto, Carrel ha piantato, per conto di Giordano, la bandiera italiana. E sull’altra? Whymper ci racconta: negli ultimi metri, lui e la sua guida di Chamonix si cimentano in una sorta di gara per vedere chi arriva primo alla vetta. La raggiungono insieme. “Qu’allons-nous planter ?” chiede allora l’Inglese alla sua guida. Michel Croz, senza dire nulla, pianta il picchetto da tenda che aveva con sé, si toglie la giacca da Savoiardo, impregnata di sudore a causa dello sforzo, e la appende al picchetto. Ecco la bandiera dei primi conquistatori del Cervino. Il gesto di Croz è stato certamente spontaneo, senza pretese ideologiche. E non spetta a noi attribuirgliene ora.

È corretto solo constatare che ci troviamo di fronte a due approcci ben diversi nei confronti della montagna: la bandiera e la giacca!

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Il Carnevale di Sorreley https://betemps.eu/it/carnevale-sorreley/ Tue, 02 Sep 2014 15:08:37 +0000 https://betemps.eu/?p=124 in Lo carnaval de Chouelèy, Imp. Duc, 1995 Le origini del carnevale di Sorreley, come quelle della maggior parte delle manifestazioni carnevalesche tradizionali, si perdono nella notte dei tempi e purtroppo la documentazione è carente. Residuo di feste antichissime, legate al ritorno della primavera e alla ripresa dei lavori agricoli, il carnevale è sempre stato, […]

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in Lo carnaval de Chouelèy, Imp. Duc, 1995

Le origini del carnevale di Sorreley, come quelle della maggior parte delle manifestazioni carnevalesche tradizionali, si perdono nella notte dei tempi e purtroppo la documentazione è carente. Residuo di feste antichissime, legate al ritorno della primavera e alla ripresa dei lavori agricoli, il carnevale è sempre stato, nella migliore delle ipotesi, tollerato dalle autorità civili e religiose ed è forse questa la spiegazione del fatto che, in Valle d’Aosta, non si trovano praticamente documenti antichi che ne testimonino l’origine e lo svolgimento. Per secoli, fino al IVe della nostra era, il carnevale è coinciso con l’inizio dell’anno, quando la popolazione sentiva la necessità di esorcizzare, per eliminarli, tutti gli avvenimenti negativi dell’anno passato e di determinare positivamente, per quanto possibile, gli avvenimenti dell’anno incipiente.

Il carnevale di Sorreley è uno dei carnevali della “Combe Froide” (valli del Gran San-Bernardo) dai quali si differenzia in alcuni particolari secondari. Le maschere principali sono:

  • Le landzette: Maschere che portano una sorta di redingote variopinta e arricchita di lustrini, specchietti e perline. Le landzette portano un pittoresco cappello a forma trapezoidale, hanno una coda di cavallo in mano che usano per stuzzicare gli spettatori e dei sonagli alla cintura. Sfilano a coppie dello stesso colore seguendo la guida con la bandiera e i joueur (musicanti).
  • Lo viou é la vieille: Il vecchio e la vecchia. Personaggi antichissimi che animano la sfilata con i loro litigi e le loro (tentate) infedeltà.
  • L’ors é lo donteur: L’orso e il domatore. Dove il domatore cerca inutilmente d’impedire all’orso di stuzzicare gli spettatori. Malgrado le bastonate e gli accapigliamenti col domatore, l’orso riesce in genere ad abbracciare qualche spettatore (o più sovente spettatrice).

Le ragazze in costume completano il gruppo e animano le danze. Altri personaggi (il diavolo, gli infermieri, la demouasella é le-s-arlequeun, ecc…) possono aggiungersi al gruppo.

Questa manifestazione, apparentemente spontanea, segue delle regole precise e necessita di una lunga organizzazione assicurata da un Comitato. Il gruppo delle maschere segue un itinerario prefissato e, preceduto dai musicanti (joueur), danzando e scherzando con la popolazione, rende visita a tutte le case. Qui la gente accoglie il gruppo offrendo da bere e da mangiare; le maschere suonano e danzano in onore dell’ospite e si fanno riconoscere togliendosi la maschera. Il giro continua fino ad esaurimento. L’ultima domenica, il comitato organizzatore offre a tutti i convenuti il minestrone, salsicce, formaggi e vino a volontà. Il finanziamento della manifestazione, oltre ai contributi spontanei della popolazione, proviene da una pesca di beneficenza.

A Sorreley, attualmente, il carnevale si svolge a due riprese: due domeniche prima della domenica grassa si fa nelle frazioni di Veynes e Maillod, il sabato e la domenica precedenti la domenica grassa nelle restanti frazioni. Un gruppo di teatro, Le badeun de Choualèy, si è costituito nel 1992 e, in occasione del carnevale, recita in patois pezzi scritti dal gruppo stesso. Da alcuni anni, il gruppo risponde anche a parte dei numerosi inviti a rassegne carnevalesche, in Valle d’Aosta ed altrove, soprattutto in Piemonte.

Come già detto non esiste alcuna documentazione scritta sulle origini del carnevale di Sorreley. Gli anziani ricordano con nostalgia le manifestazioni carnevalesche attorno agli anni ‘30: un carnevale “povero”, sottolineano tutti, ma già con i principali personaggi attuali e con lo stesso rituale della visita a tutte le famiglie. L’accoglienza era sempre calorosa, anche se i “doni” erano modesti: un bicchiere di vino, qualche uova che sarebbero servite la sera per la patchocada (bevanda a base di vino, uova sbattute e zucchero) o una bella frittata.

Dopo una lunga interruzione, nel 1955 un gruppo di giovani di Sorreley decise di rilanciare l’antica tradizione. Furono acquistate delle landzette di seconda mano nella Valle del Gran San Bernardo dove la tradizione non aveva subito interruzioni e il carnevale riprese il suo corso. All’inizio erano una quindicina di landzette, con alcuni altri personaggi tradizionali (il dottore, lo viou é la vieille). Poi il numero delle landzette aumentò progressivamente e gli altri personaggi si aggiunsero (l’orso e il domatore, il diavolo, la damigella e gli arlecchini).

Attualmente il gruppo di Sorreley è probabilmente il più numeroso fra tutti e la manifestazione ha assunto delle dimensioni inimmaginabili all’inizio. La popolazione partecipa attivamente e l’accoglienza nelle case è divenuta una sorte di gara per offrire alle maschere cibi e bevande di tutti i tipi. Resta invariato il piacere di incontrarsi, di fare festa insieme secondo un rito antichissimo che ha saputo rinnovarsi per adattarsi ai tempi.

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Il Carnevale della Combe-Froide fra conservazione e cambiamento https://betemps.eu/it/il-carnevale-della-combe-froide-fra-conservazione-e-cambiamento/ Sun, 24 Mar 2013 13:44:57 +0000 https://betemps.eu/?p=37 La forza del cambiamento La ricerca condotta dal BREL (Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique) in Valle d’Aosta nel quadro del progetto Echi sul patrimonio immateriale alpino ci ha permesso di recensire e studiare una cinquantina di feste che ritmano o hanno ritmato il tempo dei Valdostani (e, ormai, anche dei turisti). Si è […]

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La forza del cambiamento

[cml_media_alt id='41']Foto di Alexis Bétemps - 2008 foto Claudine Remacle.[/cml_media_alt]

Alexis Bétemps – 2008

La ricerca condotta dal BREL (Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique) in Valle d’Aosta nel quadro del progetto Echi sul patrimonio immateriale alpino ci ha permesso di recensire e studiare una cinquantina di feste che ritmano o hanno ritmato il tempo dei Valdostani (e, ormai, anche dei turisti). Si è così potuto constatare come alcune feste tradizionali vivacchiano o sono state abbandonate, come altre hanno conservato tutta la loro vitalità ed altre ancora sono state inventate recentemente. Lasciando da parte queste ultime, che sono una risposta dovuta a nuove esigenze, è sorta spontanea la domanda “perché alcune feste antiche sono sparite mentre altre sono in piena forma ed espansione?”

A una prima osservazione, è sembrato evidente che le antiche tradizioni attualmente in buona salute hanno tutte conosciuto cambiamenti notevoli nell’organizzazione, nello svolgimento, nella partecipazione, nei loro rituali, ecc. Per provare a rispondere alla domanda posta, ci si è chiesti se i numerosi mutamenti non dovessero essere messi in relazione con la vitalità delle manifestazioni. Si è quindi pensato di scegliere una festa di cui si conosce relativamente bene la storia e di analizzarla, per quanto possibile cronologicamente, mettendo in evidenza i cambiamenti intervenuti, la loro natura e la loro sequenza. Si è infine optato per il carnevale della Combe-Froide: una festa ancora oggi vigorosa, di cui si conoscono importanti frammenti di storia e, rispetto alle altre festività considerate, con una complessità strutturale che meglio permette di interpretare i vari cambiamenti. In Valle d’Aosta, è il carnevale più originale, quello più antico, di cui non si conosce l’origine, ma che s’inserisce perfettamente nella logica di altri carnevali alpini. In sintesi, si tratta di una questua rituale condotta all’interno del villaggio da gruppi locali mascherati, la bènda in francoprovenzale, variopinti e scherzosi, preceduti da musicanti (joueur) e da una guida (gueudda). Ogni comune della Combe ha il suo: sempre molto simile a quello del vicino, ma mai esattamente uguale.

Carnevale maledetto

Monsignor Auguste Duc, vescovo di Aosta e storico illustre, scrive nella sua monumentale Histoire de l’Eglise d’Aoste “Monsignor François de Prez, nella sua diocesi di Aosta, assistette, nel 1467, ad un disordine inaudito. Alcuni uomini si mascherarono, indossando indumenti bizzarri con dei campani appesi, tintinnabula vaccarum, e con sulla testa corna diaboliche”[1]. E’ la più antica attestazione conosciuta del carnevale in Valle d’Aosta.

Nei “Registres du Pays”, che raccolgono i verbali delle deliberazioni degli organi di governo del Ducato di Aosta, le allusioni anche piuttosto esplicite alla presenza di gruppi di maschere scorrazzanti durante il carnevale sono relativamente frequenti.[2] La loro citazione è comunque sempre legata a provvedimenti repressivi da parte dell’autorità civile. Ma è l’autorità religiosa la più ostile al carnevale: oltre che a denunciarlo, interviene con sanzioni di sua competenza. Il 3 febbraio 1784, il Co-Vicario Capitolare Charles-Jérôme Millet, nelle sue istruzioni al clero per la Quaresima, precisa, fra le numerose indicazioni, che il permesso di consumare uova e formaggi può essere accordato ai fedeli all’infuori degli ultimi quattro giorni della Settimana Santa. Sono esclusi dalla deroga, a meno che non siano ammalati, coloro che si sono mascherati durante il carnevale …[3]

Il carnevale non ha mai avuto una vita facile in Valle d’Aosta. Troppo trasgressivo, residuo del paganesimo che la chiesa non ha mai saputo riciclare, tacciato di empietà e d’immoralità, è evocato nei documenti solo per essere esecrato e punito. Sotto l’Ancien Régime, spesso su istigazione del clero, era sanzionato dall’autorità civile, che adduceva come pretesto i disordini che causava (schiamazzi, violenze, vandalismi). Era combattuto soprattutto durante le epidemie e le guerre, ahimè ben frequenti, ma, in altre occasioni, anche se non ufficialmente, era invece tollerato. Con l’Illuminismo, la sua fortuna presso le élites non muta: i conservatori, appoggiati dalla Chiesa, lo vivono sempre come una manifestazione di paganesimo e i liberali, ligi alla dea Ragione, vedono nel carnevale ignoranza e superstizione, eredità dell’odiato Ancien Régime. Ma il ceto popolare, scevro di ogni ideologismo, soprattutto nelle campagne, continua imperterrito col suo carnevale, fatto di costumi riciclati e di sfilate improvvisate, di canti sguaiati e di scherzi anche pesanti, di abbuffate (quando si può!) e di balli campestri, di aggressività e di trasgressione. Le critiche dei giornali benpensanti, le prediche minacciose dei parroci, le interdizioni del regime fascista, hanno forse cancellato la tradizione carnevalesca in alcune parrocchie, ma in altre, la grande maggioranza, l’hanno insaporita col gusto del frutto proibito ed hanno contribuito così al suo mantenimento.

Il rapporto con le autorità oggi

Le autorità civili, quelle locali come il sindaco, sono sempre state piuttosto benevole nei confronti del carnevale. E continuano a esserlo attualmente. Sovente la questua rituale, che caratterizzava quasi tutte le manifestazioni festive popolari valdostane, inizia dalla casa del sindaco (spesso lui stesso mascherato!). Inoltre, alcuni carnevali ricevono sovvenzioni dal comune e, soprattutto, dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta, grazie ad una legge a favore dei gruppi folkloristici. Gli organizzatori sono comunque tenuti a collaborare con le forze dell’ordine, anche semplicemente informandole sulle date di svolgimento, perché veglino sulla manifestazione e che i limiti non siano travalicati. La Chiesa resta ancora piuttosto scettica ma non denuncia più i rituali come pagani bensì, più realisticamente, tende a vedere nella festa un momento di spreco di energie e di risorse. In quasi tutti i comuni, da una decina d’anni, il carnevale si apre con una Santa Messa, con tanto di omelia che si spinge fino ad onorare “il santo carnevale” a Saint-Rhémy-en-Bosses. La bènda di Saint-Oyen, invece, dalla fine degli anni ’90 è ricevuta a Château-Verdun dai canonici del Gran San Bernardo. A Valpelline si dice che il parroco, l’abbé Henry, famoso storico e alpinista, negli anni ’30 ricevesse le maschere accogliendole con un bottiglione di vino. Mica male, se si pensa che fra le due guerre, ad Allein, “venivano organizzate ore di preghiera in chiesa per riparare i peccati commessi a carnevale”.[4]

Dopo secoli di conflitti con i poteri costituiti, il carnevale è finalmente riuscito a farsi accettare e il suo atteggiamento irriverente nei confronti delle autorità, quelle religiose in particolare, si è notevolmente attutito. Certo, per ottenere il riconoscimento ha dovuto sgrezzarsi e diventare più “presentabile”. Ma la pace sociale, anche se costa, è certamente apportatrice di un clima più disteso e favorevole alla festa, a quella del carnevale nel nostro caso.

La Combe-Froide

La Combe-Froide o Comba frèide in patois, che ha dato il nome al carnevale da noi considerato, è l’espressione geografica per indicare la valle del torrente Artanavaz, che dal colle del Gran San Bernardo scende verso Aosta, confluendo nel Buthier. Detta valle comprende i comuni di Gignod, Allein, Étroubles, Saint-Oyen e Saint-Rhemy-en-Bosses. La popolazione della Combe è, giustamente, molto orgogliosa del suo carnevale e ne ha a lungo rivendicato il monopolio poiché lo considera unico nel genere. In realtà, nel campo delle tradizioni popolari, le manifestazioni “uniche”sono molto rare se non inesistenti…

Detto ciò, bisogna riconoscere che gli abitanti della Combe-Froide hanno motivo di essere orgogliosi in quanto sono stati i soli a mantenere, nel suo spirito e nella sua complessità, la manifestazione carnevalesca antica. Anche se, per quel che è della distribuzione territoriale, qualcosa è cambiato.

Nel 1970, una legge raggruppa i comuni in una nuova entità politico-amministrativa. Così, la Combe-Froide si ritrova inserita nella comunità montana del Grand-Combin con la vicina Valpelline (Valpelline, Doues, Ollomont, Oyace e Bionaz) e col comune di Roisan. In alcuni comuni della Valpelline, così come a Roisan e a Sorreley, dal secondo dopoguerra e forse anche da un po’ prima, il modello del carnevale della Combe-Froide era stato adottato, sovrapponendosi talvolta a forme preesistenti. Un po’ alla volta, le polemiche legate alla primogenitura e al conseguente diritto a fregiarsi del nome di carnevale della Combe-Froide si stemperano e rientrano. Trent’anni dopo la legge, nel 2002, le landzette [5], le maschere variopinte ormai regine del carnevale della Combe-Froide moderno, sono presenti (e accettate) in tutta la comunità montana. Il carnevale si è così rafforzato allargandosi territorialmente e risolvendo contenziosi più o meno manifesti sul diritto all’utilizzazione di un marchio.

Le patoille

Il carnevale non ricorreva in una data precisa ma in un periodo che andava dal giorno dopo l’Epifania al martedì grasso. Iniziava il 7 gennaio, con le mascherate improvvisate (patoille), e terminava con la questua rituale, l’apoteosi finale della settimana grassa. Le date della questua finale dei comuni storicamente della Combe-Froide sono antiche, le altre, in genere, sono più recenti e sembrano scelte per non sovrapporsi alle prime. Ultimamente, alcuni comuni hanno spostato la manifestazione e talvolta hanno aumentato le uscite sul territorio, creando inevitabili sovrapposizioni. Le landzette e le altre maschere tradizionali sfilano solo durante la questua finale. Prima, era il tempo delle patoille, il cui nome in francoprovenzale significa cencio e, più particolarmente, strofinaccio usato per pulire il forno del pane. Per estensione, diventa il vestito mal ridotto, quindi, gli abiti lisi, usati dalla mascherata. Quando una landzetta non segue le regole, quando per esempio si mette le mani in tasca durante la sfilata, c’è sempre qualcuno che la richiama chiedendole se è una landzetta o una patoille! Patoille, erano poi chiamate familiarmente anche le cosiddette donne poco serie o di facili costumi…

Le prime settimane del carnevale erano dunque riservate alle mascherate spontanee e improvvisate, che di notte si avvicinavano alle finestre delle stalle, bussavano, entravano, visitavano i vicini, facendo scherzi di ogni tipo. Lo schema entra in crisi agli inizi degli anni ottanta, proprio quando il carnevale, sempre più inteso come la sfilata finale, riprende vigore. Il tempo di carnevale si è dunque notevolmente ridotto. I nuovi ritmi di vita, probabilmente, non avrebbero più permesso una festa così prolungata e diluita nel tempo. Si è così privilegiato il momento più spettacolare e coinvolgente. Da una ventina d’anni almeno, le pattoille sono sparite.

Le uscite della bènda (sortie): dal territorio e dal periodo temporale

Un tempo, nella stessa parrocchia potevano esserci più bènde a seconda degli umori e del numero di partecipanti. Da dopo l’ultima guerra, ce n’è però sempre stata una sola per ogni parrocchia. Capitava che una bènda, nel più puro spirito carnevalesco, sconfinasse nel comune vicino (senza farsi annunciare, beninteso!), creando scompigli memorabili, che rimpolpavano i repertori narrativi delle veglie. Ma si trattava di semplici deviazioni da una norma consolidata. I rapporti fra le bènde, in genere, non erano idilliaci e riflettevano la qualità delle relazioni fra le comunità vicine. Ma negli anni ’90, le rivalità antiche si stemperano e le bènde tradizionalmente rivali di Étroubles e Saint-Oyen organizzano di comune accordo il ballo del giovedì grasso.[6]

Nel 1986, in occasione della 3° Festa internazionale del patois, che si svolgeva nei primi giorni di settembre a Étroubles, fu chiesto alla bènda locale di organizzare una sfilata dimostrativa a beneficio dei mille e più patoisants convenuti dalla Savoia, dal Vallese e dalle Valli Piemontesi. Il gruppo, cortesemente, ma con fermezza, rifiutò “perché il carnevale si fa solo a carnevale”. Ma fu forse una delle ultime dimostrazioni di rigore nell’interpretare la tradizione… Negli anni ’90, le landzette dei vari carnevali iniziano a esibirsi fuori stagione, in occasioni speciali, per dar lustro al comune e, talvolta, alla Regione stessa. Ma già a partire dalla fine degli anni 1970, sollecitati da inviti anche prestigiosi, alcuni gruppi accettano di spostarsi dalla loro sede abituale. Agli inizi degli anni ’80, la bènda di Saint-Rhemy-en-Bosses partecipa al carnevale di Nizza, poi, negli anni 90, le uscite si fanno più frequenti e le landzette arrivano addirittura al carnevale di Venezia! Alcune bènde, inoltre, si gemellano con gruppi carnevaleschi del Piemonte e si scambiano delegazioni che partecipano alle rispettive feste. Ma negli stessi anni ‘90, l’uscita non è sempre percepita come una scelta naturale. In quegli anni, una bènda s’interroga sull’opportunità delle trasferte e, con un buon senso rimarchevole, conclude che la bènda, quando esce, diventa un gruppo folcloristico e, come tale, si presenta senza maschera facciale! Il carnevale è tutta un’altra storia![7]

La formazione del corteo

Solitamente, ci si dava appuntamento all’ora stabilita in un locale spazioso, un fienile per esempio, o in un’osteria quando c’era. Ognuno arrivava col suo costume sotto il braccio, poi, per evitare che la gente riconoscesse la persona tramite l’abbigliamento, ci si scambiava il costume. Si compravano anche scarpe nuove, tutte uguali, non riconoscibili, e si sopportava stoicamente l’inevitabile dolore ai piedi. Poteva anche accadere che, dopo la prima giornata, si vendesse il costume per comprarne subito un altro, perché il proprietario era stato identificato! L’anonimato era indispensabile per salvaguardare l’identità degli autori di scherzi un po’ troppo arditi e anche per accrescere l’interesse degli spettatori dediti al gioco dell’indovina chi. Quando tutti erano pronti, il corteo s’incamminava dietro alla guida, al ritmo dei suonatori e iniziava l’itinerario di visita. L’ordine era prestabilito e fissato dalla tradizione. Le landzette procedevano a coppie (la cobbla), secondo un ordine di colori, precedute dagli arlecchini e dalle damine, dalla guida e dai suonatori che aprivano il corteo.[8]

Attualmente, lo scambio dei costumi non avviene quasi più in quanto l’anonimato ha perso molto della sua importanza. Mentre prima si faceva di tutto per non farsi riconoscere, si è diffusa, in alcune bènde, una sorta di narcisismo e la voglia di farsi vedere è sempre più percepibile. Già ministro di un rito arcano, di cui si è dimenticato il significato, la maschera è diventata attore che dopo l’esibizione si mostra al pubblico sotto le sue vere spoglie per riceverne l’applauso.

Anche il corteo è, in genere, molto sfilacciato. Alcune bènde se ne sono rese conto e si sono organizzate perché il gruppo mantenesse l’ordine antico e la maschera sul viso, almeno nei momenti cruciali della questua: l’arrivo nelle case e la partenza. L’itinerario muta col mutare delle abitudini abitative. Nell’antico villaggio dove le case erano addossate le une contro le altre, si sono aggiunte le nuove dimore, ai bordi del vecchio abitato, distaccate e, talvolta, isolate. Per questo, le distanze da coprire sono sicuramente aumentate. In compenso il numero delle “tappe” è diminuito, per l’emigrazione della popolazione o per la tendenza delle famiglie a raggrupparsi fra vicini per accogliere insieme le maschere.

L’accoglienza

Fin verso gli anni sessanta, la maggior parte della gente passava l’inverno nelle stalle. E a carnevale è lì che riceveva le maschere. Chi poteva permetterselo però, in segno di apprezzamento, le riceveva nel péillo, la stanza riscaldata, un po’ come il soggiorno dei nostri giorni. Bisogna dire che, un tempo, le bènde si componevano di 20-25 elementi, mentre oggi sono grandi il doppio quando non il triplo!

Prima di entrare nella casa, le landzette eseguivano danzando un girotondo, tenendosi per la coda, con le altre maschere al centro. Era la loro maniera per chiedere il permesso di entrare. Poi, le maschere entravano, scherzavano un po’ con i membri della famiglia, ballavano con la padrona di casa e, di solito, si facevano riconoscere, onorando il cibo offerto e il vino che non mancava mai. Alla fine, dopo il secondo squillo della trombetta (o del corno) dato dalla guida, la mascherata riprendeva il cammino e, come saluto e ringraziamento, si ripeteva il rituale del girotondo.

Attualmente, è più difficile essere ricevuti nelle abitazioni. Non tutte le padrone di casa sono molto contente: la stagione è quella che è e le maschere, sempre più numerose, sporcano e fanno disordine. E’ meglio dunque preparare l’accoglienza nel garage sottostante, o all’ingresso, o, se il tempo è bello, anche sulla via, davanti alla porta, dove su di un tavolo di fortuna sono presentati cibo e bevande. Chi non dovesse disporre degli spazi necessari, di solito si mette d’accordo con i vicini e preparano assieme. Fin verso gli anni ’60, l’offerta alimentare consisteva essenzialmente in vino, uova fresche e, talvolta, burro fuso. Da consumare sul posto, venivano offerti il brodo bollente con un goccio di vino oppure la patchocada, uova sbattute con vino e zucchero: micidiale… Poi, si è cominciato ad offrire frittelle fatte in casa, le merveille, chiamate anche rezoulle o bugie, in italiano regionale, dolci di pasta fritta; poi pane, patate, formaggio e salumi. Ora, è quasi un assalto ai supermercati per offrire di tutto e di più, dalla gastronomia internazionale agli alimenti tradizionali.

La mascherata in cammino

Tutti i personaggi in maschera si muovevano liberamente dietro o davanti al corteo delle landzette, che sono maschere molto particolari e tutt’altro che libere poiché i loro gesti seguivano canoni ben precisi. Esse marciavano a suon di musica con un passo lieve, flessuoso e ondeggiante, che abbandonavano solamente per correre all’inseguimento di un malcapitato spettatore. Gli inseguimenti talvolta erano sollecitati dalle landzette stesse sfregando la queuvva[9] fra le gambe della vittima prescelta e talaltra dagli spettatori che stuzzicavano le maschere. Bastava poco per aizzarle: in genere si otteneva il risultato toccandole o cercando di toglier loro la maschera facciale, rubando la bandiera o la trombetta alla guida, mostrando loro una croce o facendo suonare le campane al passaggio della mascherata. In genere, la corsa, spesso nella neve, sul ghiaccio o nel fango, si concludeva con la cattura dello spettatore che veniva strattonato, gettato a terra e disturbato con la queuvva. Ancora adesso, i vecchi del carnevale parlano di scherzi memorabili, giudicati oggigiorno grossolani. Si racconta di spettatori finiti nel letamaio, di altri immersi nella fontana ghiacciata, di persone legate alla balaustra o ad un albero, di ragazze parzialmente spogliate e spalmate di lucido per scarpe nero o di pomata per le mucche, di incidenti gravi come le fratture degli arti, di vesti stracciate e danni vari alle cose, agli animali e alle persone. Per fare tutto ciò, le maschere parlavano poco e sempre in falsetto per non farsi riconoscere dalla voce e di tanto in tanto lanciavano l’étsello, un urlo gutturale, molto particolare, parente dello jodle germanico. La cura e il rispetto di questo particolare del rituale, a partire dagli anni ’60, si sono progressivamente affievoliti e molti gruppi, oramai si spostano, quando va bene, saltellando al ritmo della musica, altrimenti trotterellano senza seguire regola alcuna. Alcune bènde si sforzano di rispettare per quanto possibile le antiche regole ma non sempre con successo. La realtà è che non ci sono più serie ragioni per mantenere l’anonimato poiché, come vedremo, il carnevale si è ingentilito. Quanto agli scherzi, si raccomanda oramai alle maschere di non esagerare, soprattutto con chi non capirebbe… Il ché è un po’ in contraddizione con lo spirito del carnevale! Ma certamente, il comportamento più moderato è meglio accetto ad un pubblico estraneo alla comunità, divenuto talvolta il principale beneficiario della rappresentazione.

Il pubblico

Festa interna alla comunità, che s’identificava con la parrocchia o col comune, istituzioni che in Valle d’Aosta combaciano salvo pochissime eccezioni, il carnevale non aveva praticamente pubblico, inteso come spettatore passivo, poiché tutti i presenti avevano un ruolo attivo nella manifestazione: chi organizzava, chi si mascherava, chi stava in strada a stuzzicare le maschere di passaggio, chi riceveva in casa la bènda. Solo le famiglie in lutto o con ammalati gravi si chiudevano nel loro riserbo, rigorosamente rispettato dal gruppo mascherato. Tutti gli altri, chi più chi meno, partecipavano ai festeggiamenti. Tutti sapevano cosa fare e come comportarsi. Perché il carnevale si faceva e non si diceva…

Oggi, il carnevale non è quasi più percepito come una festa interna alla comunità, un rituale antico per rinsaldare i legami comunitari, allentati dall’inverno, in vista della ripresa primaverile dei lavori. Il carnevale, in sintonia con i tempi, è dunque diventato uno spettacolo e come tutti gli spettacoli ha bisogno di spettatori, per cui, bisogna andarli a cercare anche fuori, lontano dal villaggio. Ormai, manifesti col programma, comunicati stampa, interviste a giornali, radio e televisioni e ogni altra idea che può servire ad attirare gente alla manifestazione, precedono lo svolgimento del carnevale, la cui riuscita è spesso valutata anche sulla consistenza della partecipazione esterna. Dopo il rilancio clamoroso degli anni 1980/90, la gente estranea che va a vedere il carnevale è considerevolmente diminuita negli ultimi quindici anni. E anche la gente del posto, fra emigrazione e denatalità, non è più così presente nelle viuzze del villaggio. Inoltre, le manifestazioni carnevalesche si sono moltiplicate un po’ ovunque. Così, la gente riscopre la funzione sociale interna del carnevale: ”anche se c’è poca gente a vederci , è un’occasione per noi di ritrovarci e far festa insieme”[10].

I bambini e il carnevale

Il carnevale non era roba per i bambini.

Ancora alla fine degli anni ‘50, i bimbi lo guardavano da lontano, timorosi: si nascondevano dietro le porte, sui tetti e se scoperti, scappavano al galoppo. Avevano paura certo, ma generalmente il timore era sempre accompagnato da un sentimento di attrazione. Le maschere avevano dei comportamenti grossolani e non risparmiavano neanche i bambini. Con la crisi del mondo contadino, il ruolo dei diversi agenti del carnevale è però cambiato: da un lato, la festa si è ingentilita e dall’altro, il bambino è percepito in modo diverso, sia dalle famiglie sia dalla comunità. Così, i bambini sono entrati nel grande gioco del carnevale. La loro avanzata è stata progressiva e rapida: prima, negli anni ’70, hanno cominciato a fare le pattoille, poi si sono travestiti da diavolo, personaggio molto svalutato nell’economia del carnevale della Combe-Froide, poi da arlecchini, maschere gentili, ed infine, verso la fine degli anni 70, da landzette, le maschere più apprezzate che quasi tutti vorrebbero interpretare. Da più di dieci anni oramai, la bènda di Étroubles parte per la questua dalla scuola materna comunale dove è stata accolta dai bambini. E nessuno si nasconde più per la paura.

Il ruolo delle donne

Il carnevale è sempre stato una festa riservata agli uomini. Nel senso che le donne non si mascheravano o che, comunque, non avrebbero dovuto perché, in realtà, di tanto in tanto qualcuna lo faceva. Così si raccontava… Le stesse maschere femminili erano interpretate da uomini. Ma le donne c’erano e ci sono sempre state. Il loro ruolo, con la sensibilità moderna, può anche sembrare marginale, ma ciò nonostante, nella società contadina era ritenuto importante. Per il carnevale, le donne ripetevano essenzialmente quello che facevano nella vita quotidiana: cucivano i vestiti, preparavano il cibo e accoglievano la mascherata. E nella complicità diffusa dello scherzo carnevalesco, mescolate al pubblico, le donne erano il bersaglio preferito degli scherzi, spesso a sfondo sessuale. E non è che si limitassero a subire… Anche per loro era carnevale…

A partire dagli anni ‘60, le donne cominciano ad assumere ruoli attivi fra le pattoille e, soprattutto, negli anni ’70, nella bènda dove interpretano dapprima il ruolo della damina, poi fanno l’arlecchino, maschera gentile.[11] Non disdegnano in seguito altri ruoli come il diavolo o la tocca, ma, a mia conoscenza, non si cimentano mai con la maschera dell’orso. Ma è probabile che sia solo una questione di tempo… Poi, la donna comincia a fare la landzetta: oggi, obiettivo massimo per ogni partecipante al carnevale… Dopo, negli anni ’90, i cambiamenti corrono veloci e, attualmente, le donne sono la maggioranza in quasi tutte le bènde. E molte sono anche a capo del gruppo. Non si tratta dunque di “quote rosa” generosamente concesse, ma della naturale occupazione di uno spazio che, inaspettatamente, si è aperto. Probabilmente, se non si fosse aperto alle donne, il carnevale non ci sarebbe più…

I miti fondatori: lo charivari e la campagna d’Italia di Napoleone

Fin dall’inchiesta orale del 1979-80, la gente dava due risposte diverse alla domanda “Com’è nato il vostro carnevale?” La prima lo ravvisava in quanto accaduto a due persone un po’ strambe, non più giovani, che decidono di sposarsi. La gente, per deriderle e sanzionarle, organizza una sfilata grottesca, al suono di strumenti improvvisati, vestendosi in modo stravagante: lo charivari. La spiegazione non rappresenta, forse, l’origine del carnevale, ma ne dà un’interpretazione pertinente, coerente con l’opinione di alcuni etnologi.[12] Sebbene un po’ in declino, i due sposi, il toc e la tocca ci sono quasi sempre. Sono loro che chiudono la sfilata, spesso con atteggiamenti osceni, confondendosi con gli spettatori, litigando anche violentemente.

La seconda spiegazione, che sembra essere diventata attualmente prevalente, è quella secondo cui, la popolazione della Combe, angariata dal passaggio delle truppe di Napoleone nel 1800, abbia voluto rappresentare durante il carnevale, in modo critico e grottesco, l’avvenimento. A supporto di tale tesi, si dice che i costumi del carnevale ricalchino le uniformi dei soldati di Napoleone. Vero o non vero, comunque sia, è errato, come molti fanno, considerare il passaggio di Napoleone come l’inizio del carnevale della Combe-Froide che, anche solo a giudicare dai rituali sopravvissuti, è sicuramente molto più antico.

La seconda interpretazione, a mio giudizio la più improbabile, è diventata la più accettata al punto che la prima, quella dello charivari, non è quasi più evocata. Questa tendenza è molto significativa e va nel senso della spettacolarizzazione della manifestazione. Avere un carnevale ispirato da Napoleone è certamente più nobile che un carnevale che rappresenta la sfilata grottesca, organizzata dai giovani per due sposi vecchi e rimbambiti.

Il costume della landzetta

Attualmente, protagoniste indiscusse della sfilata sono le landzette, vocabolo che indica il costume propriamente detto e, per estensione, la persona mascherata che lo indossa. Consiste in una sorta di redingote e di pantaloni riccamente addobbati di “paillettes” e lustrini, cuciti con cura in forme floreali, e specchietti rotondi. Ha subito negli anni numerose trasformazioni. In testa portano un casque, cappello, guarnito di fiori di carta colorata e specchietti, disposto sul capo nel senso della sua lunghezza. Le landzette di Allein e di Doues sono invece esclusivamente di color rosso e portano il casque di traverso, come Napoleone. Lo stesso tipo di casco è presente in altri carnevali alpini, in altre feste tradizionali e gli elementi che lo arricchiscono sono gli stessi. Tutte le persone anziane che hanno conosciuto il carnevale prima della seconda guerra mondiale, concordano nel dire che, una volta, i costumi erano molto meno decorati. Le foto antiche, datate del primo dopoguerra, molto rare, sono inequivocabili ed è con una certa difficoltà che vi si possono ravvisare i tratti distintivi ancora esistenti nel costume attuale. Un tempo, si utilizzavano vestiti vecchi che si imprestavano o scambiavano senza problemi, ora si indossano landzette costosissime, conservate preziosamente, che si prestano e si scambiano malvolentieri. Tutti i principali elementi dell’iconografia antica si ritrovano ancora, ma la quantità degli orpelli che impreziosiscono il costume è notevolmente aumentata. Tale sfarzo evidenzia sì il carattere solare del travestimento, fatto di colori vivaci e di addobbi risplendenti, ma anche una maggiore disponibilità finanziaria della popolazione.

La guida o portabandjèira

La guida (gueudda) e i musicanti (joueur) non sono mai stati considerati veramente delle maschere perché la loro identità era palese e la loro funzione nel carnevale era di servizio. La guida era un po’ il comandante della mascherata per tutta la durata della questua. Seguita dai joueur, precedeva la bènda che guidava lungo il percorso. Dopo ogni sosta, richiamava i componenti, stimolava i renitenti, vegliava che le singole maschere avessero un comportamento conforme alla tradizione, il viso coperto in particolare. La sua autorità era riconosciuta e il suo ruolo rispettato. Un tempo teneva in mano un paniere per raccogliere le uova offerte e un vecchio corno o una trombetta per chiamare a raccolta le maschere quando necessario. Sempre riconoscibile, senza una vera maschera facciale (vezadzéye) o con una mascherina o con un naso finto, portava, generalmente, in segno di festa, dei pantaloni come le landzette e una giacca infiocchettata. Il suo abbigliamento non è praticamente cambiato, ma, da quarant’anni almeno, non ha più il paniere diventato inutile e al suo posto sventola la bandiera del carnevale, che ogni gruppo si è scelta. Ma, in molte bènde, la sua autorità pare in declino e in certi momenti la sfilata sembra un po’ allo sbando. Anche per colpa sua.

I musicanti

I suonatori (joueur), due o tre, vestiti normalmente o al massimo con un cappellaccio, magari dei baffi finti o qualche altro segno di festa, aprono il corteo suonando marcette e monferrine, quindi valzer e polke quando, nelle piazze di villaggio, nelle case o nei garage, invitano la padrona di casa e, poi, le donne presenti, a una danza. Non hanno nel loro repertorio musiche originali o esclusive del carnevale ma semplicemente motivi popolari che animano abitualmente feste e sagre.Gli strumenti musicali utilizzati sono essenzialmente due: la fisarmonica e il clarinetto o il sax. A questi, può aggiungersi lo fléyé, il correggiato, che si ispira all’omonimo attrezzo agricolo usato per battere i cereali e consiste in un bastone con le estremità piatte con gorgoillón, campanelli, e nastri. Una volta, sembra ci fossero violini e mandolini. Il repertorio si rinnova lentamente nei pezzi senza rinunciare però ai generi musicali tradizionali. Anche il rock, nelle sue forme più arcaiche ha fatto la sua timida apparizione. Nell’insieme, i joueur sono quelli che meno hanno cambiato nel corso degli anni.

La vezadzéye o maschera facciale

Lo strumento per eccellenza per camuffare l’identità dell’attore del carnevale è la maschera facciale, la “vezadjéye”, come è chiamata in francoprovenzale in buona parte della Valle d’Aosta. La sua funzione, oltre a quella di assicurare l’anonimato, è quella di caratterizzare il tipo di maschera che la porta, annunciandone il carattere o l’intenzione evocativa. L’espressione della vezadjéye segnala al pubblico se la maschera è gentile oppure diabolica.

In Valle d’Aosta, le prime maschere facciali di cui abbiamo conoscenza sono di legno. La più antica, risalente alla fine del XVIII° secolo, è perfino colorata. Con l’abbandono delle maschere di legno, le bènde hanno generalmente adottato maschere di cartapesta acquistate nei negozi di Aosta. Negli anni ’70 si potevano vedere anche maschere di gomma, ma sono state rapidamente abbandonate in quanto la loro impermeabilità non permetteva alla pelle di “respirare” e condannava la mascherata a fastidiose sudorazioni. Alla fine degli anni ’90, alcune bènde hanno adottato la mascherina alla “Zorro” che ricopriva solamente gli occhi e una parte del volto. Questa soluzione aveva sicuramente il pregio di evitare sudate indesiderate, ma non assicurava l’anonimato e annullava il carattere grottesco, proprio delle mascherate carnevalesche. Alcuni gruppi, a partire dagli inizi degli anni ’90 sono tornati alle maschere di legno, magari d’autore, scolpite da artigiani famosi. Ogni membro della bènda sceglie la sua maschera, senza indicazioni particolari. Le landzette portano maschere grottesche con l’eccezione di quelle vestite di nero che devono scegliere una maschera facciale nera. Gli arlecchini e le demouazelle portano maschere facciali più neutre, talvolta bianche. Il toc e la tocca scelgono una maschera raffigurante persone anziane.

Di legno o di cartapesta, gentile o spaventosa che fosse, la maschera facciale non poteva assolutamente essere portata dopo la fine del carnevale. I trasgressori rischiavano di ritrovarsela incollata al viso e di non poterla più togliere…

Bibliografia

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[1] Joseph-Auguste Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste vol. 5, Imprimerie Moderne H. Leibzig, Châtel-St-Denis, 1910, p. 21.

[2] Bétemps Alexis, Petite histoire du Carnaval en Vallée d’Aoste, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales « René Willien » de Saint-Nicolas, N. 65, Aosta, 2012, p 50-51.

[3] Bétemps Alexis, Il carnevale della Comba Frèide, in Maschere e Corpi, percorsi e ricerche sul Carnevale, Ed. dell’Orso, Alessandria, 1999 , p. 381.

[4] Brel, La parola alle maschere, Priuli e Verlucca Editori, Scarmagno (Torino), 2003, p. 73.

[5] Autori vari, La parola alle maschere, Carnavals de la Vallée d’Aoste, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003.

[6] Brel, La parola alle maschere, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003, p. 51.

[7] Bétemps Alexis, Traditions populaires, in Saint-Christophe, Imprimerie Duc, Saint-Christophe, 2010, p. 304.

[8] Nel 1985, a Saint-Rhemy-en-Bosses, l’ordine della sfilata è ancora rigoroso:

Napoleone a cavallo, maschera recente e non sempre presente all’epoca, la guida, i musicanti, il diavolo, gli arlecchini e le damine, poi, le coppie di landzette secondo l’ordine seguente di colori: nero, bianco, rosso, verde, marrone, blu, rosa pesca, viola (a partire dal marrone la successione dei colori non è più rigorosamente regolamentata). Chiudono la sfilata il toc e la tocca, l’orso e il domatore, il medico con gli infermieri, il parroco. (Ghignone Jean-Pierre, Les carnavals de la Combe-Froide, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales de Saint-Nicolas N. 11, 1985, p. 12).

[9] Letteralmente: coda. Di cavallo, di mulo o d’asino, legata ad un bastone, è utilizzata esclusivamente dalle landzette per stuzzicare le persone con sfregamenti sulle varie parti del corpo, nessuna esclusa.

[10] Testimonianza di una landzetta di Etroubles raccolta durante il carnevale 2013

[11] Ghignone Jean-Pierre, Les carnavals de la Combe-Froide, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales de Saint-Nicolas N. 11, 1985, p. 10.

[12] Lajoux Jean-Dominique, Mascarades d’hiver, nouvelle année et calendrier, in Brel, Carnevali della montagna, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003.

 

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