La forza del cambiamento

[cml_media_alt id='41']Foto di Alexis Bétemps - 2008 foto Claudine Remacle.[/cml_media_alt]

Alexis Bétemps – 2008

La ricerca condotta dal BREL (Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique) in Valle d’Aosta nel quadro del progetto Echi sul patrimonio immateriale alpino ci ha permesso di recensire e studiare una cinquantina di feste che ritmano o hanno ritmato il tempo dei Valdostani (e, ormai, anche dei turisti). Si è così potuto constatare come alcune feste tradizionali vivacchiano o sono state abbandonate, come altre hanno conservato tutta la loro vitalità ed altre ancora sono state inventate recentemente. Lasciando da parte queste ultime, che sono una risposta dovuta a nuove esigenze, è sorta spontanea la domanda “perché alcune feste antiche sono sparite mentre altre sono in piena forma ed espansione?”

A una prima osservazione, è sembrato evidente che le antiche tradizioni attualmente in buona salute hanno tutte conosciuto cambiamenti notevoli nell’organizzazione, nello svolgimento, nella partecipazione, nei loro rituali, ecc. Per provare a rispondere alla domanda posta, ci si è chiesti se i numerosi mutamenti non dovessero essere messi in relazione con la vitalità delle manifestazioni. Si è quindi pensato di scegliere una festa di cui si conosce relativamente bene la storia e di analizzarla, per quanto possibile cronologicamente, mettendo in evidenza i cambiamenti intervenuti, la loro natura e la loro sequenza. Si è infine optato per il carnevale della Combe-Froide: una festa ancora oggi vigorosa, di cui si conoscono importanti frammenti di storia e, rispetto alle altre festività considerate, con una complessità strutturale che meglio permette di interpretare i vari cambiamenti. In Valle d’Aosta, è il carnevale più originale, quello più antico, di cui non si conosce l’origine, ma che s’inserisce perfettamente nella logica di altri carnevali alpini. In sintesi, si tratta di una questua rituale condotta all’interno del villaggio da gruppi locali mascherati, la bènda in francoprovenzale, variopinti e scherzosi, preceduti da musicanti (joueur) e da una guida (gueudda). Ogni comune della Combe ha il suo: sempre molto simile a quello del vicino, ma mai esattamente uguale.

Carnevale maledetto

Monsignor Auguste Duc, vescovo di Aosta e storico illustre, scrive nella sua monumentale Histoire de l’Eglise d’Aoste “Monsignor François de Prez, nella sua diocesi di Aosta, assistette, nel 1467, ad un disordine inaudito. Alcuni uomini si mascherarono, indossando indumenti bizzarri con dei campani appesi, tintinnabula vaccarum, e con sulla testa corna diaboliche”[1]. E’ la più antica attestazione conosciuta del carnevale in Valle d’Aosta.

Nei “Registres du Pays”, che raccolgono i verbali delle deliberazioni degli organi di governo del Ducato di Aosta, le allusioni anche piuttosto esplicite alla presenza di gruppi di maschere scorrazzanti durante il carnevale sono relativamente frequenti.[2] La loro citazione è comunque sempre legata a provvedimenti repressivi da parte dell’autorità civile. Ma è l’autorità religiosa la più ostile al carnevale: oltre che a denunciarlo, interviene con sanzioni di sua competenza. Il 3 febbraio 1784, il Co-Vicario Capitolare Charles-Jérôme Millet, nelle sue istruzioni al clero per la Quaresima, precisa, fra le numerose indicazioni, che il permesso di consumare uova e formaggi può essere accordato ai fedeli all’infuori degli ultimi quattro giorni della Settimana Santa. Sono esclusi dalla deroga, a meno che non siano ammalati, coloro che si sono mascherati durante il carnevale …[3]

Il carnevale non ha mai avuto una vita facile in Valle d’Aosta. Troppo trasgressivo, residuo del paganesimo che la chiesa non ha mai saputo riciclare, tacciato di empietà e d’immoralità, è evocato nei documenti solo per essere esecrato e punito. Sotto l’Ancien Régime, spesso su istigazione del clero, era sanzionato dall’autorità civile, che adduceva come pretesto i disordini che causava (schiamazzi, violenze, vandalismi). Era combattuto soprattutto durante le epidemie e le guerre, ahimè ben frequenti, ma, in altre occasioni, anche se non ufficialmente, era invece tollerato. Con l’Illuminismo, la sua fortuna presso le élites non muta: i conservatori, appoggiati dalla Chiesa, lo vivono sempre come una manifestazione di paganesimo e i liberali, ligi alla dea Ragione, vedono nel carnevale ignoranza e superstizione, eredità dell’odiato Ancien Régime. Ma il ceto popolare, scevro di ogni ideologismo, soprattutto nelle campagne, continua imperterrito col suo carnevale, fatto di costumi riciclati e di sfilate improvvisate, di canti sguaiati e di scherzi anche pesanti, di abbuffate (quando si può!) e di balli campestri, di aggressività e di trasgressione. Le critiche dei giornali benpensanti, le prediche minacciose dei parroci, le interdizioni del regime fascista, hanno forse cancellato la tradizione carnevalesca in alcune parrocchie, ma in altre, la grande maggioranza, l’hanno insaporita col gusto del frutto proibito ed hanno contribuito così al suo mantenimento.

Il rapporto con le autorità oggi

Le autorità civili, quelle locali come il sindaco, sono sempre state piuttosto benevole nei confronti del carnevale. E continuano a esserlo attualmente. Sovente la questua rituale, che caratterizzava quasi tutte le manifestazioni festive popolari valdostane, inizia dalla casa del sindaco (spesso lui stesso mascherato!). Inoltre, alcuni carnevali ricevono sovvenzioni dal comune e, soprattutto, dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta, grazie ad una legge a favore dei gruppi folkloristici. Gli organizzatori sono comunque tenuti a collaborare con le forze dell’ordine, anche semplicemente informandole sulle date di svolgimento, perché veglino sulla manifestazione e che i limiti non siano travalicati. La Chiesa resta ancora piuttosto scettica ma non denuncia più i rituali come pagani bensì, più realisticamente, tende a vedere nella festa un momento di spreco di energie e di risorse. In quasi tutti i comuni, da una decina d’anni, il carnevale si apre con una Santa Messa, con tanto di omelia che si spinge fino ad onorare “il santo carnevale” a Saint-Rhémy-en-Bosses. La bènda di Saint-Oyen, invece, dalla fine degli anni ’90 è ricevuta a Château-Verdun dai canonici del Gran San Bernardo. A Valpelline si dice che il parroco, l’abbé Henry, famoso storico e alpinista, negli anni ’30 ricevesse le maschere accogliendole con un bottiglione di vino. Mica male, se si pensa che fra le due guerre, ad Allein, “venivano organizzate ore di preghiera in chiesa per riparare i peccati commessi a carnevale”.[4]

Dopo secoli di conflitti con i poteri costituiti, il carnevale è finalmente riuscito a farsi accettare e il suo atteggiamento irriverente nei confronti delle autorità, quelle religiose in particolare, si è notevolmente attutito. Certo, per ottenere il riconoscimento ha dovuto sgrezzarsi e diventare più “presentabile”. Ma la pace sociale, anche se costa, è certamente apportatrice di un clima più disteso e favorevole alla festa, a quella del carnevale nel nostro caso.

La Combe-Froide

La Combe-Froide o Comba frèide in patois, che ha dato il nome al carnevale da noi considerato, è l’espressione geografica per indicare la valle del torrente Artanavaz, che dal colle del Gran San Bernardo scende verso Aosta, confluendo nel Buthier. Detta valle comprende i comuni di Gignod, Allein, Étroubles, Saint-Oyen e Saint-Rhemy-en-Bosses. La popolazione della Combe è, giustamente, molto orgogliosa del suo carnevale e ne ha a lungo rivendicato il monopolio poiché lo considera unico nel genere. In realtà, nel campo delle tradizioni popolari, le manifestazioni “uniche”sono molto rare se non inesistenti…

Detto ciò, bisogna riconoscere che gli abitanti della Combe-Froide hanno motivo di essere orgogliosi in quanto sono stati i soli a mantenere, nel suo spirito e nella sua complessità, la manifestazione carnevalesca antica. Anche se, per quel che è della distribuzione territoriale, qualcosa è cambiato.

Nel 1970, una legge raggruppa i comuni in una nuova entità politico-amministrativa. Così, la Combe-Froide si ritrova inserita nella comunità montana del Grand-Combin con la vicina Valpelline (Valpelline, Doues, Ollomont, Oyace e Bionaz) e col comune di Roisan. In alcuni comuni della Valpelline, così come a Roisan e a Sorreley, dal secondo dopoguerra e forse anche da un po’ prima, il modello del carnevale della Combe-Froide era stato adottato, sovrapponendosi talvolta a forme preesistenti. Un po’ alla volta, le polemiche legate alla primogenitura e al conseguente diritto a fregiarsi del nome di carnevale della Combe-Froide si stemperano e rientrano. Trent’anni dopo la legge, nel 2002, le landzette [5], le maschere variopinte ormai regine del carnevale della Combe-Froide moderno, sono presenti (e accettate) in tutta la comunità montana. Il carnevale si è così rafforzato allargandosi territorialmente e risolvendo contenziosi più o meno manifesti sul diritto all’utilizzazione di un marchio.

Le patoille

Il carnevale non ricorreva in una data precisa ma in un periodo che andava dal giorno dopo l’Epifania al martedì grasso. Iniziava il 7 gennaio, con le mascherate improvvisate (patoille), e terminava con la questua rituale, l’apoteosi finale della settimana grassa. Le date della questua finale dei comuni storicamente della Combe-Froide sono antiche, le altre, in genere, sono più recenti e sembrano scelte per non sovrapporsi alle prime. Ultimamente, alcuni comuni hanno spostato la manifestazione e talvolta hanno aumentato le uscite sul territorio, creando inevitabili sovrapposizioni. Le landzette e le altre maschere tradizionali sfilano solo durante la questua finale. Prima, era il tempo delle patoille, il cui nome in francoprovenzale significa cencio e, più particolarmente, strofinaccio usato per pulire il forno del pane. Per estensione, diventa il vestito mal ridotto, quindi, gli abiti lisi, usati dalla mascherata. Quando una landzetta non segue le regole, quando per esempio si mette le mani in tasca durante la sfilata, c’è sempre qualcuno che la richiama chiedendole se è una landzetta o una patoille! Patoille, erano poi chiamate familiarmente anche le cosiddette donne poco serie o di facili costumi…

Le prime settimane del carnevale erano dunque riservate alle mascherate spontanee e improvvisate, che di notte si avvicinavano alle finestre delle stalle, bussavano, entravano, visitavano i vicini, facendo scherzi di ogni tipo. Lo schema entra in crisi agli inizi degli anni ottanta, proprio quando il carnevale, sempre più inteso come la sfilata finale, riprende vigore. Il tempo di carnevale si è dunque notevolmente ridotto. I nuovi ritmi di vita, probabilmente, non avrebbero più permesso una festa così prolungata e diluita nel tempo. Si è così privilegiato il momento più spettacolare e coinvolgente. Da una ventina d’anni almeno, le pattoille sono sparite.

Le uscite della bènda (sortie): dal territorio e dal periodo temporale

Un tempo, nella stessa parrocchia potevano esserci più bènde a seconda degli umori e del numero di partecipanti. Da dopo l’ultima guerra, ce n’è però sempre stata una sola per ogni parrocchia. Capitava che una bènda, nel più puro spirito carnevalesco, sconfinasse nel comune vicino (senza farsi annunciare, beninteso!), creando scompigli memorabili, che rimpolpavano i repertori narrativi delle veglie. Ma si trattava di semplici deviazioni da una norma consolidata. I rapporti fra le bènde, in genere, non erano idilliaci e riflettevano la qualità delle relazioni fra le comunità vicine. Ma negli anni ’90, le rivalità antiche si stemperano e le bènde tradizionalmente rivali di Étroubles e Saint-Oyen organizzano di comune accordo il ballo del giovedì grasso.[6]

Nel 1986, in occasione della 3° Festa internazionale del patois, che si svolgeva nei primi giorni di settembre a Étroubles, fu chiesto alla bènda locale di organizzare una sfilata dimostrativa a beneficio dei mille e più patoisants convenuti dalla Savoia, dal Vallese e dalle Valli Piemontesi. Il gruppo, cortesemente, ma con fermezza, rifiutò “perché il carnevale si fa solo a carnevale”. Ma fu forse una delle ultime dimostrazioni di rigore nell’interpretare la tradizione… Negli anni ’90, le landzette dei vari carnevali iniziano a esibirsi fuori stagione, in occasioni speciali, per dar lustro al comune e, talvolta, alla Regione stessa. Ma già a partire dalla fine degli anni 1970, sollecitati da inviti anche prestigiosi, alcuni gruppi accettano di spostarsi dalla loro sede abituale. Agli inizi degli anni ’80, la bènda di Saint-Rhemy-en-Bosses partecipa al carnevale di Nizza, poi, negli anni 90, le uscite si fanno più frequenti e le landzette arrivano addirittura al carnevale di Venezia! Alcune bènde, inoltre, si gemellano con gruppi carnevaleschi del Piemonte e si scambiano delegazioni che partecipano alle rispettive feste. Ma negli stessi anni ‘90, l’uscita non è sempre percepita come una scelta naturale. In quegli anni, una bènda s’interroga sull’opportunità delle trasferte e, con un buon senso rimarchevole, conclude che la bènda, quando esce, diventa un gruppo folcloristico e, come tale, si presenta senza maschera facciale! Il carnevale è tutta un’altra storia![7]

La formazione del corteo

Solitamente, ci si dava appuntamento all’ora stabilita in un locale spazioso, un fienile per esempio, o in un’osteria quando c’era. Ognuno arrivava col suo costume sotto il braccio, poi, per evitare che la gente riconoscesse la persona tramite l’abbigliamento, ci si scambiava il costume. Si compravano anche scarpe nuove, tutte uguali, non riconoscibili, e si sopportava stoicamente l’inevitabile dolore ai piedi. Poteva anche accadere che, dopo la prima giornata, si vendesse il costume per comprarne subito un altro, perché il proprietario era stato identificato! L’anonimato era indispensabile per salvaguardare l’identità degli autori di scherzi un po’ troppo arditi e anche per accrescere l’interesse degli spettatori dediti al gioco dell’indovina chi. Quando tutti erano pronti, il corteo s’incamminava dietro alla guida, al ritmo dei suonatori e iniziava l’itinerario di visita. L’ordine era prestabilito e fissato dalla tradizione. Le landzette procedevano a coppie (la cobbla), secondo un ordine di colori, precedute dagli arlecchini e dalle damine, dalla guida e dai suonatori che aprivano il corteo.[8]

Attualmente, lo scambio dei costumi non avviene quasi più in quanto l’anonimato ha perso molto della sua importanza. Mentre prima si faceva di tutto per non farsi riconoscere, si è diffusa, in alcune bènde, una sorta di narcisismo e la voglia di farsi vedere è sempre più percepibile. Già ministro di un rito arcano, di cui si è dimenticato il significato, la maschera è diventata attore che dopo l’esibizione si mostra al pubblico sotto le sue vere spoglie per riceverne l’applauso.

Anche il corteo è, in genere, molto sfilacciato. Alcune bènde se ne sono rese conto e si sono organizzate perché il gruppo mantenesse l’ordine antico e la maschera sul viso, almeno nei momenti cruciali della questua: l’arrivo nelle case e la partenza. L’itinerario muta col mutare delle abitudini abitative. Nell’antico villaggio dove le case erano addossate le une contro le altre, si sono aggiunte le nuove dimore, ai bordi del vecchio abitato, distaccate e, talvolta, isolate. Per questo, le distanze da coprire sono sicuramente aumentate. In compenso il numero delle “tappe” è diminuito, per l’emigrazione della popolazione o per la tendenza delle famiglie a raggrupparsi fra vicini per accogliere insieme le maschere.

L’accoglienza

Fin verso gli anni sessanta, la maggior parte della gente passava l’inverno nelle stalle. E a carnevale è lì che riceveva le maschere. Chi poteva permetterselo però, in segno di apprezzamento, le riceveva nel péillo, la stanza riscaldata, un po’ come il soggiorno dei nostri giorni. Bisogna dire che, un tempo, le bènde si componevano di 20-25 elementi, mentre oggi sono grandi il doppio quando non il triplo!

Prima di entrare nella casa, le landzette eseguivano danzando un girotondo, tenendosi per la coda, con le altre maschere al centro. Era la loro maniera per chiedere il permesso di entrare. Poi, le maschere entravano, scherzavano un po’ con i membri della famiglia, ballavano con la padrona di casa e, di solito, si facevano riconoscere, onorando il cibo offerto e il vino che non mancava mai. Alla fine, dopo il secondo squillo della trombetta (o del corno) dato dalla guida, la mascherata riprendeva il cammino e, come saluto e ringraziamento, si ripeteva il rituale del girotondo.

Attualmente, è più difficile essere ricevuti nelle abitazioni. Non tutte le padrone di casa sono molto contente: la stagione è quella che è e le maschere, sempre più numerose, sporcano e fanno disordine. E’ meglio dunque preparare l’accoglienza nel garage sottostante, o all’ingresso, o, se il tempo è bello, anche sulla via, davanti alla porta, dove su di un tavolo di fortuna sono presentati cibo e bevande. Chi non dovesse disporre degli spazi necessari, di solito si mette d’accordo con i vicini e preparano assieme. Fin verso gli anni ’60, l’offerta alimentare consisteva essenzialmente in vino, uova fresche e, talvolta, burro fuso. Da consumare sul posto, venivano offerti il brodo bollente con un goccio di vino oppure la patchocada, uova sbattute con vino e zucchero: micidiale… Poi, si è cominciato ad offrire frittelle fatte in casa, le merveille, chiamate anche rezoulle o bugie, in italiano regionale, dolci di pasta fritta; poi pane, patate, formaggio e salumi. Ora, è quasi un assalto ai supermercati per offrire di tutto e di più, dalla gastronomia internazionale agli alimenti tradizionali.

La mascherata in cammino

Tutti i personaggi in maschera si muovevano liberamente dietro o davanti al corteo delle landzette, che sono maschere molto particolari e tutt’altro che libere poiché i loro gesti seguivano canoni ben precisi. Esse marciavano a suon di musica con un passo lieve, flessuoso e ondeggiante, che abbandonavano solamente per correre all’inseguimento di un malcapitato spettatore. Gli inseguimenti talvolta erano sollecitati dalle landzette stesse sfregando la queuvva[9] fra le gambe della vittima prescelta e talaltra dagli spettatori che stuzzicavano le maschere. Bastava poco per aizzarle: in genere si otteneva il risultato toccandole o cercando di toglier loro la maschera facciale, rubando la bandiera o la trombetta alla guida, mostrando loro una croce o facendo suonare le campane al passaggio della mascherata. In genere, la corsa, spesso nella neve, sul ghiaccio o nel fango, si concludeva con la cattura dello spettatore che veniva strattonato, gettato a terra e disturbato con la queuvva. Ancora adesso, i vecchi del carnevale parlano di scherzi memorabili, giudicati oggigiorno grossolani. Si racconta di spettatori finiti nel letamaio, di altri immersi nella fontana ghiacciata, di persone legate alla balaustra o ad un albero, di ragazze parzialmente spogliate e spalmate di lucido per scarpe nero o di pomata per le mucche, di incidenti gravi come le fratture degli arti, di vesti stracciate e danni vari alle cose, agli animali e alle persone. Per fare tutto ciò, le maschere parlavano poco e sempre in falsetto per non farsi riconoscere dalla voce e di tanto in tanto lanciavano l’étsello, un urlo gutturale, molto particolare, parente dello jodle germanico. La cura e il rispetto di questo particolare del rituale, a partire dagli anni ’60, si sono progressivamente affievoliti e molti gruppi, oramai si spostano, quando va bene, saltellando al ritmo della musica, altrimenti trotterellano senza seguire regola alcuna. Alcune bènde si sforzano di rispettare per quanto possibile le antiche regole ma non sempre con successo. La realtà è che non ci sono più serie ragioni per mantenere l’anonimato poiché, come vedremo, il carnevale si è ingentilito. Quanto agli scherzi, si raccomanda oramai alle maschere di non esagerare, soprattutto con chi non capirebbe… Il ché è un po’ in contraddizione con lo spirito del carnevale! Ma certamente, il comportamento più moderato è meglio accetto ad un pubblico estraneo alla comunità, divenuto talvolta il principale beneficiario della rappresentazione.

Il pubblico

Festa interna alla comunità, che s’identificava con la parrocchia o col comune, istituzioni che in Valle d’Aosta combaciano salvo pochissime eccezioni, il carnevale non aveva praticamente pubblico, inteso come spettatore passivo, poiché tutti i presenti avevano un ruolo attivo nella manifestazione: chi organizzava, chi si mascherava, chi stava in strada a stuzzicare le maschere di passaggio, chi riceveva in casa la bènda. Solo le famiglie in lutto o con ammalati gravi si chiudevano nel loro riserbo, rigorosamente rispettato dal gruppo mascherato. Tutti gli altri, chi più chi meno, partecipavano ai festeggiamenti. Tutti sapevano cosa fare e come comportarsi. Perché il carnevale si faceva e non si diceva…

Oggi, il carnevale non è quasi più percepito come una festa interna alla comunità, un rituale antico per rinsaldare i legami comunitari, allentati dall’inverno, in vista della ripresa primaverile dei lavori. Il carnevale, in sintonia con i tempi, è dunque diventato uno spettacolo e come tutti gli spettacoli ha bisogno di spettatori, per cui, bisogna andarli a cercare anche fuori, lontano dal villaggio. Ormai, manifesti col programma, comunicati stampa, interviste a giornali, radio e televisioni e ogni altra idea che può servire ad attirare gente alla manifestazione, precedono lo svolgimento del carnevale, la cui riuscita è spesso valutata anche sulla consistenza della partecipazione esterna. Dopo il rilancio clamoroso degli anni 1980/90, la gente estranea che va a vedere il carnevale è considerevolmente diminuita negli ultimi quindici anni. E anche la gente del posto, fra emigrazione e denatalità, non è più così presente nelle viuzze del villaggio. Inoltre, le manifestazioni carnevalesche si sono moltiplicate un po’ ovunque. Così, la gente riscopre la funzione sociale interna del carnevale: ”anche se c’è poca gente a vederci , è un’occasione per noi di ritrovarci e far festa insieme”[10].

I bambini e il carnevale

Il carnevale non era roba per i bambini.

Ancora alla fine degli anni ‘50, i bimbi lo guardavano da lontano, timorosi: si nascondevano dietro le porte, sui tetti e se scoperti, scappavano al galoppo. Avevano paura certo, ma generalmente il timore era sempre accompagnato da un sentimento di attrazione. Le maschere avevano dei comportamenti grossolani e non risparmiavano neanche i bambini. Con la crisi del mondo contadino, il ruolo dei diversi agenti del carnevale è però cambiato: da un lato, la festa si è ingentilita e dall’altro, il bambino è percepito in modo diverso, sia dalle famiglie sia dalla comunità. Così, i bambini sono entrati nel grande gioco del carnevale. La loro avanzata è stata progressiva e rapida: prima, negli anni ’70, hanno cominciato a fare le pattoille, poi si sono travestiti da diavolo, personaggio molto svalutato nell’economia del carnevale della Combe-Froide, poi da arlecchini, maschere gentili, ed infine, verso la fine degli anni 70, da landzette, le maschere più apprezzate che quasi tutti vorrebbero interpretare. Da più di dieci anni oramai, la bènda di Étroubles parte per la questua dalla scuola materna comunale dove è stata accolta dai bambini. E nessuno si nasconde più per la paura.

Il ruolo delle donne

Il carnevale è sempre stato una festa riservata agli uomini. Nel senso che le donne non si mascheravano o che, comunque, non avrebbero dovuto perché, in realtà, di tanto in tanto qualcuna lo faceva. Così si raccontava… Le stesse maschere femminili erano interpretate da uomini. Ma le donne c’erano e ci sono sempre state. Il loro ruolo, con la sensibilità moderna, può anche sembrare marginale, ma ciò nonostante, nella società contadina era ritenuto importante. Per il carnevale, le donne ripetevano essenzialmente quello che facevano nella vita quotidiana: cucivano i vestiti, preparavano il cibo e accoglievano la mascherata. E nella complicità diffusa dello scherzo carnevalesco, mescolate al pubblico, le donne erano il bersaglio preferito degli scherzi, spesso a sfondo sessuale. E non è che si limitassero a subire… Anche per loro era carnevale…

A partire dagli anni ‘60, le donne cominciano ad assumere ruoli attivi fra le pattoille e, soprattutto, negli anni ’70, nella bènda dove interpretano dapprima il ruolo della damina, poi fanno l’arlecchino, maschera gentile.[11] Non disdegnano in seguito altri ruoli come il diavolo o la tocca, ma, a mia conoscenza, non si cimentano mai con la maschera dell’orso. Ma è probabile che sia solo una questione di tempo… Poi, la donna comincia a fare la landzetta: oggi, obiettivo massimo per ogni partecipante al carnevale… Dopo, negli anni ’90, i cambiamenti corrono veloci e, attualmente, le donne sono la maggioranza in quasi tutte le bènde. E molte sono anche a capo del gruppo. Non si tratta dunque di “quote rosa” generosamente concesse, ma della naturale occupazione di uno spazio che, inaspettatamente, si è aperto. Probabilmente, se non si fosse aperto alle donne, il carnevale non ci sarebbe più…

I miti fondatori: lo charivari e la campagna d’Italia di Napoleone

Fin dall’inchiesta orale del 1979-80, la gente dava due risposte diverse alla domanda “Com’è nato il vostro carnevale?” La prima lo ravvisava in quanto accaduto a due persone un po’ strambe, non più giovani, che decidono di sposarsi. La gente, per deriderle e sanzionarle, organizza una sfilata grottesca, al suono di strumenti improvvisati, vestendosi in modo stravagante: lo charivari. La spiegazione non rappresenta, forse, l’origine del carnevale, ma ne dà un’interpretazione pertinente, coerente con l’opinione di alcuni etnologi.[12] Sebbene un po’ in declino, i due sposi, il toc e la tocca ci sono quasi sempre. Sono loro che chiudono la sfilata, spesso con atteggiamenti osceni, confondendosi con gli spettatori, litigando anche violentemente.

La seconda spiegazione, che sembra essere diventata attualmente prevalente, è quella secondo cui, la popolazione della Combe, angariata dal passaggio delle truppe di Napoleone nel 1800, abbia voluto rappresentare durante il carnevale, in modo critico e grottesco, l’avvenimento. A supporto di tale tesi, si dice che i costumi del carnevale ricalchino le uniformi dei soldati di Napoleone. Vero o non vero, comunque sia, è errato, come molti fanno, considerare il passaggio di Napoleone come l’inizio del carnevale della Combe-Froide che, anche solo a giudicare dai rituali sopravvissuti, è sicuramente molto più antico.

La seconda interpretazione, a mio giudizio la più improbabile, è diventata la più accettata al punto che la prima, quella dello charivari, non è quasi più evocata. Questa tendenza è molto significativa e va nel senso della spettacolarizzazione della manifestazione. Avere un carnevale ispirato da Napoleone è certamente più nobile che un carnevale che rappresenta la sfilata grottesca, organizzata dai giovani per due sposi vecchi e rimbambiti.

Il costume della landzetta

Attualmente, protagoniste indiscusse della sfilata sono le landzette, vocabolo che indica il costume propriamente detto e, per estensione, la persona mascherata che lo indossa. Consiste in una sorta di redingote e di pantaloni riccamente addobbati di “paillettes” e lustrini, cuciti con cura in forme floreali, e specchietti rotondi. Ha subito negli anni numerose trasformazioni. In testa portano un casque, cappello, guarnito di fiori di carta colorata e specchietti, disposto sul capo nel senso della sua lunghezza. Le landzette di Allein e di Doues sono invece esclusivamente di color rosso e portano il casque di traverso, come Napoleone. Lo stesso tipo di casco è presente in altri carnevali alpini, in altre feste tradizionali e gli elementi che lo arricchiscono sono gli stessi. Tutte le persone anziane che hanno conosciuto il carnevale prima della seconda guerra mondiale, concordano nel dire che, una volta, i costumi erano molto meno decorati. Le foto antiche, datate del primo dopoguerra, molto rare, sono inequivocabili ed è con una certa difficoltà che vi si possono ravvisare i tratti distintivi ancora esistenti nel costume attuale. Un tempo, si utilizzavano vestiti vecchi che si imprestavano o scambiavano senza problemi, ora si indossano landzette costosissime, conservate preziosamente, che si prestano e si scambiano malvolentieri. Tutti i principali elementi dell’iconografia antica si ritrovano ancora, ma la quantità degli orpelli che impreziosiscono il costume è notevolmente aumentata. Tale sfarzo evidenzia sì il carattere solare del travestimento, fatto di colori vivaci e di addobbi risplendenti, ma anche una maggiore disponibilità finanziaria della popolazione.

La guida o portabandjèira

La guida (gueudda) e i musicanti (joueur) non sono mai stati considerati veramente delle maschere perché la loro identità era palese e la loro funzione nel carnevale era di servizio. La guida era un po’ il comandante della mascherata per tutta la durata della questua. Seguita dai joueur, precedeva la bènda che guidava lungo il percorso. Dopo ogni sosta, richiamava i componenti, stimolava i renitenti, vegliava che le singole maschere avessero un comportamento conforme alla tradizione, il viso coperto in particolare. La sua autorità era riconosciuta e il suo ruolo rispettato. Un tempo teneva in mano un paniere per raccogliere le uova offerte e un vecchio corno o una trombetta per chiamare a raccolta le maschere quando necessario. Sempre riconoscibile, senza una vera maschera facciale (vezadzéye) o con una mascherina o con un naso finto, portava, generalmente, in segno di festa, dei pantaloni come le landzette e una giacca infiocchettata. Il suo abbigliamento non è praticamente cambiato, ma, da quarant’anni almeno, non ha più il paniere diventato inutile e al suo posto sventola la bandiera del carnevale, che ogni gruppo si è scelta. Ma, in molte bènde, la sua autorità pare in declino e in certi momenti la sfilata sembra un po’ allo sbando. Anche per colpa sua.

I musicanti

I suonatori (joueur), due o tre, vestiti normalmente o al massimo con un cappellaccio, magari dei baffi finti o qualche altro segno di festa, aprono il corteo suonando marcette e monferrine, quindi valzer e polke quando, nelle piazze di villaggio, nelle case o nei garage, invitano la padrona di casa e, poi, le donne presenti, a una danza. Non hanno nel loro repertorio musiche originali o esclusive del carnevale ma semplicemente motivi popolari che animano abitualmente feste e sagre.Gli strumenti musicali utilizzati sono essenzialmente due: la fisarmonica e il clarinetto o il sax. A questi, può aggiungersi lo fléyé, il correggiato, che si ispira all’omonimo attrezzo agricolo usato per battere i cereali e consiste in un bastone con le estremità piatte con gorgoillón, campanelli, e nastri. Una volta, sembra ci fossero violini e mandolini. Il repertorio si rinnova lentamente nei pezzi senza rinunciare però ai generi musicali tradizionali. Anche il rock, nelle sue forme più arcaiche ha fatto la sua timida apparizione. Nell’insieme, i joueur sono quelli che meno hanno cambiato nel corso degli anni.

La vezadzéye o maschera facciale

Lo strumento per eccellenza per camuffare l’identità dell’attore del carnevale è la maschera facciale, la “vezadjéye”, come è chiamata in francoprovenzale in buona parte della Valle d’Aosta. La sua funzione, oltre a quella di assicurare l’anonimato, è quella di caratterizzare il tipo di maschera che la porta, annunciandone il carattere o l’intenzione evocativa. L’espressione della vezadjéye segnala al pubblico se la maschera è gentile oppure diabolica.

In Valle d’Aosta, le prime maschere facciali di cui abbiamo conoscenza sono di legno. La più antica, risalente alla fine del XVIII° secolo, è perfino colorata. Con l’abbandono delle maschere di legno, le bènde hanno generalmente adottato maschere di cartapesta acquistate nei negozi di Aosta. Negli anni ’70 si potevano vedere anche maschere di gomma, ma sono state rapidamente abbandonate in quanto la loro impermeabilità non permetteva alla pelle di “respirare” e condannava la mascherata a fastidiose sudorazioni. Alla fine degli anni ’90, alcune bènde hanno adottato la mascherina alla “Zorro” che ricopriva solamente gli occhi e una parte del volto. Questa soluzione aveva sicuramente il pregio di evitare sudate indesiderate, ma non assicurava l’anonimato e annullava il carattere grottesco, proprio delle mascherate carnevalesche. Alcuni gruppi, a partire dagli inizi degli anni ’90 sono tornati alle maschere di legno, magari d’autore, scolpite da artigiani famosi. Ogni membro della bènda sceglie la sua maschera, senza indicazioni particolari. Le landzette portano maschere grottesche con l’eccezione di quelle vestite di nero che devono scegliere una maschera facciale nera. Gli arlecchini e le demouazelle portano maschere facciali più neutre, talvolta bianche. Il toc e la tocca scelgono una maschera raffigurante persone anziane.

Di legno o di cartapesta, gentile o spaventosa che fosse, la maschera facciale non poteva assolutamente essere portata dopo la fine del carnevale. I trasgressori rischiavano di ritrovarsela incollata al viso e di non poterla più togliere…

Bibliografia

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[1] Joseph-Auguste Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste vol. 5, Imprimerie Moderne H. Leibzig, Châtel-St-Denis, 1910, p. 21.

[2] Bétemps Alexis, Petite histoire du Carnaval en Vallée d’Aoste, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales « René Willien » de Saint-Nicolas, N. 65, Aosta, 2012, p 50-51.

[3] Bétemps Alexis, Il carnevale della Comba Frèide, in Maschere e Corpi, percorsi e ricerche sul Carnevale, Ed. dell’Orso, Alessandria, 1999 , p. 381.

[4] Brel, La parola alle maschere, Priuli e Verlucca Editori, Scarmagno (Torino), 2003, p. 73.

[5] Autori vari, La parola alle maschere, Carnavals de la Vallée d’Aoste, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003.

[6] Brel, La parola alle maschere, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003, p. 51.

[7] Bétemps Alexis, Traditions populaires, in Saint-Christophe, Imprimerie Duc, Saint-Christophe, 2010, p. 304.

[8] Nel 1985, a Saint-Rhemy-en-Bosses, l’ordine della sfilata è ancora rigoroso:

Napoleone a cavallo, maschera recente e non sempre presente all’epoca, la guida, i musicanti, il diavolo, gli arlecchini e le damine, poi, le coppie di landzette secondo l’ordine seguente di colori: nero, bianco, rosso, verde, marrone, blu, rosa pesca, viola (a partire dal marrone la successione dei colori non è più rigorosamente regolamentata). Chiudono la sfilata il toc e la tocca, l’orso e il domatore, il medico con gli infermieri, il parroco. (Ghignone Jean-Pierre, Les carnavals de la Combe-Froide, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales de Saint-Nicolas N. 11, 1985, p. 12).

[9] Letteralmente: coda. Di cavallo, di mulo o d’asino, legata ad un bastone, è utilizzata esclusivamente dalle landzette per stuzzicare le persone con sfregamenti sulle varie parti del corpo, nessuna esclusa.

[10] Testimonianza di una landzetta di Etroubles raccolta durante il carnevale 2013

[11] Ghignone Jean-Pierre, Les carnavals de la Combe-Froide, in Bulletin du Centre d’Etudes francoprovençales de Saint-Nicolas N. 11, 1985, p. 10.

[12] Lajoux Jean-Dominique, Mascarades d’hiver, nouvelle année et calendrier, in Brel, Carnevali della montagna, Priuli e Verlucca, Scarmagno (Torino), 2003.